E’ finita. La Cassazione ha appena pronunciato il Suo verdetto: Massimo Bossetti è stato condannato definitivamente all’ergastolo. E’ lui, senza alcun dubbio, l’assassino della piccola Yara Gambirasio, morta ad appena 13 anni il 26 novembre 2010.
Di dubbi su questo esito, francamente, ne avevamo ben pochi, nonostante la difesa di Bossetti avesse provato in tutti i modi a smontare una tesi accusatoria basata sulla prova regina per antonomasia: il Dna. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, infatti, avevano presentato in Cassazione un ricorso di 600 pagine, contenenti 23 motivi per i quali la condanna all’ergastolo si sarebbe dovuta annullare.
I legali chiedevano una nuova perizia sul Dna, dal momento che, a loro avviso, vi sarebbero stati vizi di forma e di sostanza nel suo repertamento e nel suo utilizzo come prova. Veniva ancora una volta posta la questione del Dna mitocondriale: quello di Bossetti non è mai stato repertato sul corpo di Yara. Ma gli esperti, in merito, hanno chiaramente spiegato che non è il Dna mitocondriale, bensì quello nucleare a essere identificativo della persona. E il Dna nucleare di Massimo Bossetti, sul corpo di Yara, c’era eccome, e in posti “significativi” come gli slip della ragazzina.
Altri dubbi la difesa li aveva avanzati in merito alla compatibilità tra fibre tessili del sedile del furgone di Bossetti e quelle repertate sul corpo della ragazzina, e sulle immagini delle telecamere che avevano ripreso il furgone dell’imputato la sera della scomparsa di Yara nei pressi della palestra dove la giovane si era recata.
Tutto inutile, insomma. La realtà è che Bossetti, come avevano scritto i giudici di Appello, ha commesso un delitto di “inaudita gravità, commesso ‘vigliaccamente’ ai danni di una ragazzina debole e indifesa, aggredita per motivi sicuramente spregevoli”. Per questo, il “fine pena mai” non può che essere una granitica certezza.
di Valentina Magrin