Mostro di Firenze. Quella lettera che preannuncia il ritrovamento della cartuccia da Pacciani.

Sono quattro pagine battute da una macchina da scrivere elettrica, come quelle degli anni ’80. Ma non sono quattro pagine qualunque. L’uomo che le scrive, le indirizza all’avvocato Pietro Fioravanti (all’epoca unico difensore di Pacciani) e all’allora direttore della Nazione, Roberto Gelmini. Quattro pagine per dire: attenzione, metteranno una pistola invecchiata ad arte a casa di Pacciani, la interreranno per dargli la colpa dei delitti. Una previsione perfetta e glaciale. Se ne è riparlato anche recentemente, nel convegno che a Prato ha organizzato il regista Paolo Cochi, che da anni studia il Mostro (l’ultimo suo documentario è “La zona oscura“).

All’epoca, Pacciani era già indagato per i delitti del Mostro di Firenze e scontava l’ultimissimo periodo di carcere per gli stupri alle figlie, per i quali era stato arrestato a maggio 1987. La data della lettera è quella del 18 novembre 1991: il 29 aprile 1992, cinque mesi dopo, una cartuccia veniva trovata interrata in un paletto di cemento dell’orto di Pacciani, in via Sonnino 28-30, a Mercatale Val di Pesa, al termine di una perquisizione (la vedete nella foto sotto) durata giorni e giorni, nell’indescrivibile confusione in cui si trovavano – da sempre – la casa e i magazzini annessi.  Paletto che era stato ovviamente verticale per anni e che quel giorno si ruppe mentre i Vigili del Fuoco lo maneggiavano. Ruggero Perugini, allora capo della Sam -la Squadra Anti Mostro- la racconterà così: “….ho colto, nella luce del tardo pomeriggio, un brillio quasi impercettibile nella terra che riempie uno dei fori di quel mezzo paletto sopra il quale, un minuto fa, stava in  piedi Paolo. Ciò che appena affiora dal terriccio è una parte di oggetto metallico….”. Quella cartuccia incrostata di terriccio diverrà uno dei macigni sulla testa di Pacciani: il reperto 55357.

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Al processo se ne parlò, della lettera. Ma brevemente: d’altronde, era anonima, e le lettere anonime, per legge, non hanno diritto di parola in un processo. Ma quei fogli esistevano e sono ancor oggi agli atti. Qui potete vedere il secondo foglio.

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L’orto di via Sonnino era l’unico posto in cui chiunque avrebbe potuto nascondere qualcosa per incastrare Pacciani. D’altronde, lui non ci aveva mai abitato: ci andò dopo l’assoluzione, anni dopo. Abitava infatti nell’altra casa che aveva, nel centro di Mercatale, Piazza del Popolo 7, con la famiglia. La casa di via Sonnino era stata affittata per un po’ a cinque studenti-musicisti: Angelica Scardigli, Tiziano Pieraccini, Marco Paolini, Franco Manetti, Gabriele Grazzi. E poi era rimasta vuota. Dunque perfetta per nasconderci qualcosa di notte, anche perché appunto c’era l’orto e non era necessario entrare in casa, solo fare attenzione ai vicini (sotto vedete come appariva l’orto a novembre 2014. Grab da Il Gazzettino del Chianti). Era talmente evidente che quello fosse il posto giusto che lo stesso Pacciani, nelle intercettazioni ambientali di fine 1991-inizio 1992, parlava da solo, preoccupato che rifacessero un’altra perquisizione (“non mi avranno messo qualche gingillo nell’orto?“) e lo fregassero.  D’altronde, casa sua era già perquisita tre volte. Prima della lettera (l’11 giugno 1990) e  subito dopo, il 3 dicembre 1991 e poi ancora il 6 dicembre, quando lo scarcerarono: ma mai così a fondo come lo sarà nell’aprile successivo, quando si useranno sensori a infrarossi e metal detector modificati. E allora Pacciani sposta, guarda, cerca. Non sa che la SAM lo sta spiando giorno e notte. Ma non trova nulla: se avesse tolto qualcosa – qualcosa precedentemente nascosto da lui stesso – i poliziotti l’avrebbero visto. Invece no

Ma chi poteva avere interesse a incastrare Pacciani? L’anonimo sospetta la Polizia, ma chi scrive ha conosciuto Perugini: un signore d’altri tempi, un gentiluomo che non si sarebbe mai sporcato le mani con una porcheria simile. E allora perchè non pensare che sia stato proprio il Mostro di Firenze a mettere lì il proiettile, per peggiorare la posizione del già indagato Pacciani? E’ la stessa conclusione cui giunge, subito dopo, l’anonimo. Curiosamente, fu anche la prima cosa che pensò Perugini: “La prima cosa che ho pensato è stata: chi ha messo qui questo proiettile?”. Sembrava proprio strano che fosse andato a finire proprio dentro un paletto bucato. E che ci fosse finito quando era ancora verticale

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L’anonimo scrive in un buon italiano, ha vissuto la seconda guerra mondiale, conosce le armi, sa come si invecchiano i metalli: dice che lo fa da 30 anni.  Parla di fare esami genetici su Pacciani per vedere se poi è davvero suo il sangue trovato su quei fazzolettini a Scopeti, nel 1985. Sa bene che non basterebbe interrare la pistola per pochi mesi: Pacciani è stato in carcere 5 anni per lo stupro delle figlie, l’arma dovrebbe risultare messa lì da prima. La procedura che l’anonimo descrive per invecchiare l’arma (una cura di acido nitrico e poi 6-7 mesi nella terra) sarebbe a suo dire sufficiente per far sembrare la pistola messa lì da anni ed anni, e quindi magari da prima dell’arresto. Ma l’anonimo dimentica una cosa fondamentale: questa procedura sarebbe stata solo un bluff. Qualunque perito si sarebbe accorto, facendo un confronto tra l’arma ritrovata e i reperti balistici dei delitti, che i secondi non erano stati sparati dalla prima. Ecco perché, se è stato davvero l’assassino a farlo, non avrebbe avuto senso far ritrovare un’arma nell’orto, come prevedeva l’anonimo. Tanto valeva una cartuccia

Una cartuccia che, comunque, certezze non ne ha mai dato, al punto di diventare uno dei motivi d’assoluzione di Pacciani in Appello. Non aveva i segni di percussore, estrattore ed espulsore, perchè s’era inceppata nell’arma e quindi non era più stata caricata. Una cartuccia integra, che non era attribuibile ad alcuna arma perchè non aveva i segni univoci che si producono con lo sparo. C’erano solo delle microstrie, cioè dei graffi lasciati sul bossolo dallo strisciamento contro le parti metalliche della pistola, ma come avrete già capito è roba di poco, non sufficiente a dire: ehi, questo proiettile è stato nella stessa Beretta serie 70 dell’assassino! Infatti, questo dissero i periti Benedetti e Spampinato: “gli elementi raccolti nel corso di questa indagine non sono sufficienti per formulare un giudizio di certezza in ordine alla provenienza degli elementi di colpo sopracitati dalla medesima arma. Per contro, la buona coincidenza di singoli fasci dì microstrie presenti sui reperti comparati non consente di escludere questa possibilità”.  Era una cartuccia Winchester serie H, sì, ma non si poteva dimostrare che venisse dalla stessa partita usata dall’assassino. E a ben vedere Spampinato e Benedetti l’avevano confrontata solo con armi Beretta, senza pensare che quelle microstrie potevano venire anche da armi di marca diversa. Insomma, era finita 0-0: non si poteva confermare che la cartuccia fosse del Mostro, ma nemmeno escluderlo. 

E poi fecero anche una perizia chimica, ovviamente.  Il perito Giancarlo Mei vide subito che “la matrice del bossolo in ottone è costituita da una lega di rame e zinco con percentuali rispettive di 70% e 3o%”. Perchè s’interessava proprio e solo del bossolo? Perchè è dalle condizioni della lega dell’ottone che avrebbe capito quanto era stata interrata la cartuccia.  Aveva un aspetto un po’ rossastro, il bossolo.  Esaminò allora la sua dezincificazione, cioè la perdita di zinco. Risultò di circa 0,5-2 micron; la bibliografia indicava in circa dieci volte tanto, e cioè 5-20 micron, quella che ci si sarebbe dovuti attendere di fronte ad una azione corrosiva di oltre 5 anni (dal 1992 indietro al 1987 sono proprio 5 anni). Il perito concluse, allora, che il proiettile era stato interrato per un massimo di 5 anni. Massimo 5 anni? Quindi poco prima di finire dentro. Ma anche qui è 0-0: massimo 5 anni può essere anche 2, di anni. Quando Pacciani era al fresco. La stessa conclusione cui giunse, infatti, la Corte d’Appello, che assolse Pacciani.

E quindi? L’assassino aveva invecchiato apposta una cartuccia preso della sua bella scatoletta di Winchester serie H e poi l’ aveva messa nell’orto?  Già, ma perché lasciare a Pacciani quel bel ricordino, se non si poteva essere certi che l’avrebbe affossato? Beh, magari perché ci ha provato. E infatti fino all’Appello la cartuccia resse: poi non è detto che l’assassino fosse un esperto così approfondito di chimica. Viene anche da chiedersi: ma allora, perché non ha fatto ritrovare direttamente una cartuccia esplosa? Quella sì che avrebbe sepolto Pacciani. Ma forse l’assassino, 6 anni dopo, l’ultimo delitto, non aveva più la Beretta, solo i proiettili.  Ipotesi a parte, resta la lettera sinistra dell’anonimo: qualcuno sapeva già cosa stava per accadere?

di Fabio Sanvitale