E così, Giuseppe Pelosi detto Pino è morto. Il testimone di quella notte di fango e sabbia in cui fu ucciso Pier Paolo Pasolini – quasi un’ora dopo mezzanotte del 1 novembre 1975- è morto a 59 anni. Tumore, dicono. In fondo non è sopravvissuto poi molto alla vita della sua vittima (lo scrittore aveva 53 anni quando fu ucciso). Ma che vita diversa: tanto ostinata nella sincerità, nell’analisi, nell’anticonformismo quella di Pasolini. Tanto ostinata nella menzogna, nell’aggrovigliare, nel riproporre sempre la mentalità criminale dell’omertà, Pelosi.
Due vite così separate s’erano conosciute in quel 1975, diversi mesi prima del delitto. E s’erano frequentate fino alla notte dell’Idroscalo, quando Pasolini fu assassinato. Io e Armando Palmegiani (insieme abbiamo scritto il nostro ultimo libro proprio su questa vicenda, “Accadde all’Idroscalo“) incontrammo Pelosi forse un anno e mezzo fa. Non ne avemmo una grande impressione dal punto di vista umano: troppo sicuro, troppo disinvolto nelle sue verità, troppo esplicito nel dire con chiarezza che quella che diceva era l’80% della verità: “il resto la dirò quando starò parato a Santo Domingo“, concluse evocando una minaccia ancora presente sulla sua vita. Poi contammo le sue bugie, le inverosimiglianze, le illogicità, le contraddizioni di tutte le sue deposizioni dal ’75 a oggi: erano 43. Decidemmo che avremmo fatto a meno di intervistarlo: quota 44 non ci interessava. Lo ritrovammo a piazza Testaccio, nel cuore del cuore di Roma. Gestiva “Zì Elena”, uno dei bar storici del quartiere. Durò, anche stavolta, qualche mese. Per questo, capirete, per noi Pelosi non è mai stata una figura da tratteggiare con comprensione, quella dovuta allo sfortunato ragazzino che s’era trovata nel posto sbagliato nel momento sbagliato e che ne aveva avuta la vita rovinata. Aveva ammesso di essersi venduto lo scrittore (lo scrisse nel suo secondo libro) agli amici, ma che non immaginava che sarebbe finita con un cadavere. Era, questa almeno, una spiegazione molto credibile. Che, tuttavia, con la sfortuna aveva poco a che vedere. L’aveva portato al macello e non ci aveva portato uno qualsiasi, ma Pasolini. Una colpa che nessun tribunale della memoria gli avrebbe perdonato, specie senza una vera presa di distanza da quella scelta. E invece, 42 anni di mezze verità, di rivelazioni centellinate, di contro-rivelazioni, tutto con quella disinvoltura così fastidiosa.
Con Pelosi se ne va l’ultima possibilità di sapere chi c’era con lui quella notte. Di sapere davvero tutto. Non che fino a ieri ci fossero molte possibilità di farselo dire, anzi quasi nessuna. Ma ora il discorso si chiude. A novembre saranno passati, appunto, 42 anni da allora: c’è un limite a tutto. Il suo avvocato, Alessandro Olivieri, dichiara oggi che in una cassetta di sicurezza è custodita la verità di quella notte del ’75, scritta e firmata da Giuseppe Pelosi. Non sappiamo: sembra l’ennesimo annuncio a sensazione, stile Santo Domingo. Nella nostra lunga indagine abbiamo rovesciato sul tavolo tutto quello che si sapeva di questa storia, l’abbiamo ri-analizzato, riletto, investigato. Tutte le piste, una per una, senza pregiudizi. Ci siamo fatti la nostra idea, abbiamo scritto i nomi di almeno tre persone che, secondo noi, c’erano. Anche loro, ormai, tutti morti. Abbiamo individuato un movente nuovo, verosimile. Molte tessere sono tornate al loro posto. Ma dire che quei tre sono i soli assassini no, non ce la sentiamo di dirlo. Qualcun altro c’era. Quella che forse si può scrivere, oggi, sul delitto Pasolini, è infatti una verità parziale, una verità storica, che è cosa filosoficamente e praticamente diversa dalla verità processuale, per la quale Pelosi è l’ unico assassino, quando invece aveva “solo” fatto la parte di Giuda e assistito, per poi accollarsi la colpa.
Resta una cosa. Resta la rabbia, questa sì. Giuseppe Pelosi s’è portato il suo segreto nella tomba.
di Fabio Sanvitale