Ogni sabato alle 21:10, su RAI 4, va in onda la fiction “Italian Detective”, per un totale di 12 episodi. La storia: un’agenzia investigativa di Roma, a conduzione familiare, si lascia riprendere mentre svolge alcuni incarichi con l’obiettivo di raccontare la vita quotidiana dell’investigatore privato.
Il reality, iniziato il 15 ottobre, è una sorta di documentario che tra indagini, pedinamenti e appostamenti vorrebbe descrivere come agisce un investigatore privato per risolvere i casi e offrire – così – uno spaccato del mondo dei detective italiani al grande pubblico, probabilmente molto diverso da ciò che aveva fino ad oggi nutrito l’immaginario collettivo. E già questo costituisce un bene.
Molti “addetti ai lavori” hanno storto il naso perché non si vogliono identificare con i protagonisti della fiction: ma questo è comprensibile perché il ventaglio delle attività condotte da una agenzia investigativa è ampissimo e – pertanto – l’operatività di ogni titolare può essere assai diversa. Anche le metodologie impiegate per risolvere i casi possono non coincidere con quelle del reality perché dipendono – indubbiamente – dall’esperienza professionale degli investigatori.
Un rischio grosso c’è: che il telespettatore si lasci influenzare da facili entusiasmi e cerchi di emulare gli investigatori privati, scimmiottandoli. Il che è assolutamente sconsigliabile oltre che illegale… Ad esempio, l’utilizzo di tecnologie come il GPS per un pedinamento elettronico è consentito solamente agli investigatori privati autorizzati, ossia in possesso di regolare licenza.
La reputazione della categoria non è costellata – secondo chi scrive – di risultati strabilianti perché i detective italiani – purtroppo – sono stati regolamentati da una norma, risalente all’epoca fascista, di dubbia efficacia; e le cose sono state “accomodate” con una mini-riforma, solo da un quinquennio a questa parte. Per vederne concretamente i risultati bisognerà aspettare parecchi anni, insomma.
E infatti, nella fiction è evidente che la sig.ra Rita, titolare dell’ agenzia e protagonista della serie, ha acquisito la licenza col vecchio ordinamento: le sue performance professionali dipendono – in larga misura – dall’esperienza acquisita sul campo. Ciò non toglie assolutamente niente al suo know how, anzi. Anche mio padre apparteneva a quella generazione di detective coriacei che si sono forgiati attraverso la loro ostinazione: chi ha avuto la fortuna di avere un tutor esperto, durante la propria formazione, ha raggiunto risultati più che apprezzabili.
Resta il fatto che l’immagine che hanno costruito di sé gli investigatori privati italiani è quella di un professionista dedito alle infedeltà e – in effetti – il fatturato della maggior parte delle agenzie investigative è costituito da questo.
Poi c’è un gruppo di professionisti, probabilmente una stretta minoranza, dediti a casi di natura penale: omicidio, frodi assicurative, investigazioni in ambito aziendale o frodi alimentari, tanto per fare qualche esempio. Non voglio descrivere questi professionisti come una “categoria” di rango superiore, ma voglio dire che esistono e si distinguono nettamente dallo stereotipo più comune.
Insomma, “Italian detective” rischia di rappresentare solo una parte degli investigatori e delle indagini possibili. Però, mette un punto fermo sul fatto che l’operatività dell’investigatore privato italiano è fortemente condizionato da una norma che gli impedisce di fare moltissime cose che sarebbero indispensabili: come l’accesso a certe banche dati. E questo è un problema serio. Ma la serie rappresenta in modo onesto buona parte dei detectives italiani, che sono effettivamente organizzati più come impresa a conduzione familiare che non come impresa commerciale vera e propria.
E non sono certo quotidianamente impegnati in pericolosi casi di spionaggio in stile James Bond. In questo, il reality ha colto nel segno.
di Alessandro Cascio – Presidente Associazione Professionale Investigazioni e Sicurezza