Insomma, è stato un incidente, un guasto o una bomba? 46 anni dopo lo schianto del Dc8 Alitalia sul crinale di Montagna Longa, a Palermo, alle 22,24 del 5 maggio 1972, in una notte di foschia, questa domanda è ancora sospesa nell’aria. C’è già stato un processo ai primi anni Ottanta (che ha detto: incidente) e due tentativi di riapertura dell’inchiesta, conclusi entrambi con archiviazioni nel 2013 e 2017. Ora l’avvocato Giovanni Di Benedetto, che rappresenta alcuni parenti delle vittime, ci riproverà un’altra volta, stavolta alla Procura di Caltanissetta. Il volo AZ112 era decollato da Fiumicino con a bordo 115 persone tra equipaggio e passeggeri. Uno dei più grandi disastri aereonautici italiani.
Torniamo a quella notte di maggio, quando da Palermo la gente si affacciò alle finestre per tutte quelle ambulanze e mezzi dei Vigili del Fuoco che partivano per Montagna Longa, la seconda vetta che sta subito dietro Punta Raisi (la prima è Monte Pecoraro). “La manovra dell’aereo, che invece di scendere sull’aeroporto va a sbattere sulla montagna, è incomprensibile, se non lo vediamo come ingovernabile” dice l’avvocato. Subito dopo il disastro volteggiarono ipotesi infamanti per i piloti, Roberto Bartoli e Bruno Dini: avevano bevuto, non portavano gli occhiali, erano distratti, tutte scemenze poi smentite dai fatti. E allora? Cos’era successo? Di Benedetto lo ha chiesto al professor Rosario Marretta, docente di Aerodinamica all’Università di Palermo, che ha risposto nel 2017 con una perizia.
“Dov’è finito il carburante?“, si chiede il professore. L’incendio provocato dallo schianto sull’erba di Montagna Longa, a oltre 900 metri d’altezza, avrebbe dovuto essere enorme, con tutto il carburante stivato. Eppure, è bruciata solo la parte destra dell’aereo, tanto che sull’altra si legge ancora bene “Alitalia”. Marretta: “A Roma furono imbarcate 21 tonnellate di kerosene, quell’aereo avrebbe dovuto averne ancora 15-16: dove è finito, in termini esplosivi? Sulla montagna non c’è traccia, il suolo dovrebbe denunciare una vetrificazione silicea, che rimane attiva anche dopo 50 anni, in pratica dovrebbe essere uno strato di vetro…”. Ne deduce che l’aereo aveva perso prima la maggior parte del carburante. “L’AZ112 termina il suo volo sul crinale lato Terrasini della vetta di Montagna Longa” scrive nella sua perizia ”per rovinare cadaveri e rottami sul versante opposto, lato Carini” dove diversi testimoni videro l’aereo arrivare (nella foto sotto: Monte Pecoraro visto dalla pista dell’aeroporto).
Marretta ipotizza che l’aereo abbia fatto manovra sia da un lato che dall’altro della montagna: “la rotta dei piloti è dritta come un fuso verso Monte Gradara, ma si interrompe sulla verticale di Carini e ritorna su se stessa, inizialmente di nuovo verso nord. Una sorta d’inversione a U, che diventa una O”. Il che spiegherebbe le contraddizioni sulla posizione dell’aereo nel cielo di Palermo, che saltano fuori dal racconto dei testi.
Poi collega questo con un dato noto: la scatola nera aveva funzionato 7 ore e poi stop. Non era funzionante dal 1 maggio, senza che si fosse mai accesa la spia del guasto ai 15 equipaggi che si succedettero da quel giorno alla guida. Dunque, fa l’ ipotesi che ciò sia stato dovuto a una manomissione della scatola e della spia. E che una bomba sia esplosa in fase di atterraggio, facendo perdere molto carburante prima dell’impatto e facendo perdere il controllo al pilota. “La domanda è: voglio far capire che è stato un attentato oppure no? Se voglio farlo in modo che capisca chi deve capire, deve sembrare un incidente”, conclude Marretta. “Cosa rappresenta Montagna Longa nella storia del DC8-43, uno degli aerei con meno incidenti al mondo, a chi serviva questo disastro?” si chiede il professore. “La mafia non era in grado di fare una cosa del genere”. E questo è pacifico, la prima vera bomba di mafia è quella che fa saltare in aria il giudice Rocco Chinnici nel 1983. “Doveva succedere quando i mandanti avrebbero dato la luce verde. Erano pronti dal 1 maggio. Si è scelto il 5 perché data interessante, siamo alla soglia delle elezioni, alla caduta del governo Andreotti”.
Però, come si fa a dimostrare dopo tanti anni che la spia magari non era funzionante di suo? Nel disastro della Costa Concordia avvenne l’impensabile: il pannello di controllo della plancia di comando, dopo l’urto con lo scoglio delle Scole, andò in avaria causando il black out nella nave; e poco dopo ci andò anche il generatore d’emergenza. Quante possibilità c’erano che ci fossero due guasti del genere, insieme? Eppure successe. E poi, quando bastavano già allora 50 grammi di esplosivo per un attentato del genere, nemmeno la riesumazione dei cadaveri, oggi, porterebbe a qualcosa. Di certo, comunque, nel 1972, nessuno ipotizzò la bomba: “Se fossero stati conservati alcuni reperti dell’ala in prossimità dei serbatoi sarebbe stato possibile, anche oggi, cercare di identificare tracce di microcrateri, indici di una esplosione ad alto potenziale, come è stato fatto per l’aereo di Mattei o per Ustica, dove hanno trovato i pallini del missile. L’onda d’urto scava dei microcrateri nella struttura e solo questo ci dice se c’è stata un’esplosione anche dopo molti anni, perché nel tempo i residui chimici svaniscono”, ci spiega Gianni Vadalà, ex dirigente della 4^ Divisione della Polizia Scientifica, dove si fanno le indagini chimiche. Vadalà è tra quelli che si è occupato degli attentati a Falcone e Borsellino, tra l’altro. “Certo è che negli anni prima del processo, le tecnologie e le professionalità per trovare questi segni da noi non c’erano, neanche i militari le avevano”, conclude. E allora come si fa a dimostrare la bomba, oggi, quando i rottami dell’aereo non esistono più e tutto quello che c’è sono le foto della Scientifica? Quando l’autopsia dell’epoca non precisava la causa primaria della morte (traumi da impatto, traumi secondari, incendio)? Quando non c’è più nemmeno la scatola nera? Marretta è allora ricorso a sofisticati sistemi di calcolo.
I periti incaricati all’epoca dal Giudice Istruttore Cacciatore, del tribunale di Catania, conclusero che quella notte Bartoli, Dini ed il motorista Gioacchino Di Fiore, sulla rotta di avvicinamento a Punta Raisi, avevano vari strumenti di bordo: il DME (che misura la distanza dal Vor, cioè il radiofaro, uno strumento che da terra invia un segnale radio continuo), l’NDB e le indicazioni del radar di bordo. Per i periti, l’equipaggio aveva individuato male l’aeroporto. La Commissione Ministeriale Lino indicò invece, come causa probabile dell’incidente, “la mancata osservanza del circuito di traffico aeroportuale” e il fatto che Bartoli e Dini non si siano capiti sulla manovra (il che è davvero surreale), parlando però anche loro delle carenze delle infrastrutture a terra. Nessuno ipotizzò una bomba, nessuno la rivendicò, nessuno di conseguenza la cercò. Gli esperti della Rolls-Royce dissero che non c’era un guasto ai loro motori. I processi si conclusero nel 1984 indicando nell’errore dei piloti la probabile causa.
L’Anpac, l’Associazione dei Piloti Civili, rispose che invece era colpa delle strumentazioni a terra, ed elencò tutti i problemi di Punta Raisi all’epoca, oltre a spiegare come si comportavano i piloti nel cielo di Palermo. Scrisse che il radiofaro, quand’era a Punta Raisi (era stato spostato su Monte Gradara da gennaio 1972, quindi pochi mesi prima), risultava comunque, “dalla cartina di procedura Alitalia (…) inattendibile nel settore 095°/210°” e che verso di lui “molti piloti nutrono riserve anche in condizioni meteo buone, è di nessuna affidabilità in condizioni di brutto tempo”. Scrisse che nessun pilota seguiva le rotte ufficiali di avvicinamento all’aeroporto: “La fase conclusiva della procedura è ritenuta pericolosa perché indirizzata verso le vicine montagne a quota pericolosa, con informazioni strumentali di distanza del tutto approssimative”. Aggiunse che “l’avvistamento ed il riconoscimento del campo, soprattutto di notte, è critico per l’angolazione sotto cui l’aereo si presenta e per la mancanza di aiuti visivi efficaci”. L’Anpac rispose ai periti che a Punta Raisi era pericoloso usare VOR e DME sotto i 4.000 metri di quota: erano inaffidabili e “entrano in gioco zone di ombra prodotte dalla particolare orografia locale”: il difetto andava e veniva. E che i piloti non usavano il radar di bordo negli atterraggi, per la possibile confusione tra eco metereologiche e del terreno in presenza di nubi e piovaschi, e per la criticità di regolazione nel rilevamento di ostacoli a corta distanza. Tra l’altro,a Punta Raisi mancava anche il radar, anche se all’epoca avercelo era più una cosa da militari: che infatti ce l’avevano a Marsala, ma a cui però nessuno pensò di chiedere i tracciati, cosa che avrebbe risolto molti di questi dubbi. A completare il quadro di un aeroporto nato assurdamente sotto una montagna e le sue correnti d’aria (perché lì c’erano i terreni della mafia), di un aeroporto dove le valutazioni meteo si facevano a occhio perché strumenti non ne avevano, c’erano i due fari luminosi di aeroporto, entrambe inefficienti dalla fine del 1971. Altro che “inosservanza dei circuiti aeroportuali”, è che a Punta Raisi si atterrava praticamente a vista: gli strumenti li usavi, ma non potevi fidarti al 100%. Il pilota Mancuso, per seguire il radiofaro, il 10 febbraio precedente aveva corso un grosso rischio, tanto da segnalarlo sul brogliaccio dell’aeroporto. Era un difetto incostante nello spazio e nel tempo, con il segnale che andava e veniva. Circa 1.000 atterraggi c’erano stati prima del disastro e nessun aereo era caduto, vero. Ma il problema l’avevano segnalato tanti altri Comandanti: Giambalvo, De Lio, Passerotti, D’Alba, Lusenti, Volpi, Conturi, Atza, Pattaro. Quest’ultimo aveva rilevato il fenomeno della « falsa verticale » (aveva cioè creduto, per seguire la strumentazione, di essere sull’area dell’aeroporto quando non ci stava) il 4 maggio 1972: la notte prima del disastro.
L’equipaggio del DC8 (nella foto) aveva migliaia di ore di volo alle spalle. il Comandante Bartoli aveva già volato 57 volte su Palermo e quindi ne conosceva bene i rischi. Spesso pensiamo che il Comandante sia quello che guida l’aereo, mentre il Primo Ufficiale fa altro. Non è così. È il Comandante che decide di volta in volta chi guida. Quel giorno era Dini a farlo; e Bartoli si mise alle comunicazioni radio. L’ultimo suo volo su Palermo era stato il 13 aprile precedente. Era stato lui ai comandi, quindi è possibile che non sapesse dello spostamento del radiofaro, visto che non si era occupato di comunicazioni, quel giorno? Sarebbe questo, l’errore fatale? In realtà no. Se Bartoli la notte della tragedia si fosse sintonizzato sulla frequenza di Monte Gradara (come indicano i resti della strumentazione) pensando invece che fosse Punta Raisi, avrebbe detto a Dini di puntare sul Monte Gradara, appunto, scambiandolo per l’aeroporto. Certo. Ma nell’errore sarebbero dovuti cadere anche Dini e anche Di Fiore, l’addetto alle strumentazioni. Possibile? No, davvero. E poi un bel po’ di spie e allarmi si sarebbero messi a strillare, vedendo avvicinarsi il terreno troppo in fretta.
Oggi sostiene Marretta che tutto avviene quando Bartoli comunica a Punta Raisi di trovarsi “a 5.000 piedi e di riportarsi sottovento per la 25 sinistra”. Sono circa le 21.10. Quando l’equipaggio del volo AZ 112 dice di stare a 5000 piedi, il che vuol dire che ha identificato l’aeroporto (o crede d’averlo fatto) e che sta iniziando la discesa. Dini si sta portando in questa posizione, quando per il professore esplode una bomba in corrispondenza del serbatoio Main 4, installato sulla semiala di destra. Per dimostrarlo, Marretta ha utilizzato un modello di calcolo basato sulle equazioni di moto linearizzato. Ha impostato matrici e vettori, stimando il punto iniziale in cui doveva trovarsi l’aereo e l’algoritmo gli ha restituito quella che dev’essere stata la sua ultima traiettoria.
Però. Non torna tutto. Chi poteva accedere a quella semiala per piazzare la bomba (grande come un pacchetto di sigarette)? Il 30 aprile 1972, negli hangar di Fiumicino, hanno luogo operazioni di manutenzione dell’aereo e qui si poteva sia piazzarla che alterare la scatola nera e la spia relativa. Certo. “Ma la bomba avrebbe dovuto essere innescata da un detonatore barico, cioè che scatta con la pressione dell’aria, a sua volta attivato da un timer a Fiumicino, prima della partenza” osserva Vadalà. Un’operazione complicata dal ritardo del DC8 e dalla necessità di dover avvenire in pista, sotto gli occhi di tutti. Alle 19.28 l’aereo, con 43 minuti di ritardo, era atterrato a Roma, pronto a imbarcare i passeggeri diretti a Palermo Punta Raisi. Alle 20.35 il volo era in pista di rullaggio ed aveva ridotto il proprio ritardo a 25 minuti sull’orario previsto. Dieci minuti e poi il decollo verso la morte.
Se escludiamo l’errore dei piloti, allora restano la bomba, il guasto a bordo e l’errore dovuto alla strumentazione di terra. Troppi sono i dati che dovremmo avere e non abbiamo. La perizia Marretta sicuramente spiega una serie di cose, ma non ne prova altre; e probabilmente è troppo tardi per trovarne le prove. Come lo è per capire la responsabilità del radiofaro di Monte Gradara. La verità forse non la sapremo mai.
di Fabio Sanvitale