Sono le prime ore di quella che sarà un’altra calda mattina di luglio, in una delle campagne della Landrigga. C’è da aiutare papà Giacomo nei lavori alla vigna e Teodora, che sta per compiere ventiquattro anni e tra pochi mesi, dopo cinque anni di fidanzamento, sposerà finalmente il suo Lorenzo, lo accompagna insieme al fratello più piccolo, Antonio, che ha combinato un guaio: ha danneggiato il cane del fucile a due canne del padre. I tre, si muovono così: in casa, Giacomo maneggia l’arma, Teodora, poco distante, gli dà le spalle, Antonio è fuori che lavora. Non c’è la loro mamma che è rimasta in città.
È il 1884. Tra poco più di due mesi rispetto a quel luglio, su progetto dell’architetto Francesco Agnesa, a Sassari, verrà posta la prima pietra della parrocchiale di San Giuseppe, che vedrà la fine dei lavori quattro anni più tardi, in una zona che è ancora un’area isolata, a metà tra ospedale e carcere e antistante piazza d’Armi, luogo delle esercitazioni d’artiglieria.
Giovanni Clemente, che, con i fratelli Gavino, Giovanni e Domenico, guiderà dal 1870 al 1930 la ditta Fratelli Clemente, producendo arredi sia semplici che di lusso, invece, è appena nato. A dicembre, l’8, con l’esecuzione del Riccardo III, opera del maestro Luigi Canepa, verrà inaugurato il Teatro Verdi.
Tre fatti di cui Teodora non vedrà gli sviluppi. Non si inginocchierà per pregare a San Giuseppe, non vedrà mai un mobile a firma Fratelli Clemente e non ci sarà quando i cammelli e i leoni del circo Bernabò, nel 1908, attraverseranno la città per arrivare sino al teatro Verdi che non avendo ancora le poltroncine fisse, poteva trasformare la platea in un’arena. Teodora, quel 7 luglio 1884, giace, colpita accidentalmente alla scapola da uno sparo, tra le braccia del padre che urla disperato. Urla che richiamano l’attenzione di Antonio, che accorre e non può far altro che aiutare il genitore ad adagiare quello che ormai è il cadavere della sorella su un giaciglio in paglia e, lasciando l’uomo a vegliare quel corpo senza vita, va a Sassari ad informare dell’accaduto le Autorità che alle 10 sono già sul posto.
Omicidio volontario o disgraziato incidente? La pubblica voce dà subito il proprio contributo: nessun rancore, nessuno screzio, nessun odio all’interno della famiglia. Anche il promesso sposo conferma i “si dice”. Nei cinque anni di fidanzamento, mai, l’uomo aveva cessato di amare la figlia, neanche per un momento. Mai. Motivo per il quale non si rende necessario procedere all’arresto. Ma Teodora è morta e con lei i suoi sogni da moglie e madre. Restano solo i suoi capelli sciolti sotto una coperta bianca a righe rosse che le è stata buttata addosso per pietà, e un corpo freddo per il quale nulla possono più fare i calzini bianchi e un grembiule sopra una veste e una camicia di tela.
“Dallo stato apparente del cadavere”, scrive in perizia il medico incaricato di ispezionare il cadavere, “sono in grado di affermare la causa della morte dell’individuo senza che abbia bisogno di procedere all’autopsia del medesimo. La causa della morte dello stesso la ripongo nella lesione profonda cagionata da proiettile di arma da fuoco”. “Colpita a bruciapelo”, conclude. Se colpita accidentalmente o volontariamente, non lo riguarda. Il fucile nemmeno viene sequestrato. Le dichiarazioni di padre e figlio,”il colpo è partito da solo”, sono vangelo.
Però. Il giorno 9, al Giudice Istruttore giunge la richiesta di procedere immediatamente al sequestro del fucile e a un ascolto più preciso dei vicini di casa per verificare se sono a conoscenza di fatti più o meno recenti che possano minare le dichiarazioni di Antonio e Giacomo. A novembre, a quattro mesi dalla morte di Teodora, il Prof Pitzorno viene incaricato di far luce sull’accaduto. Lo fa senza dati certi, basandosi sul proprio giudizio e sulla propria intuizione, basandosi solo su due allegati agli atti: la descrizione della ferita sottoscapolare che ha ucciso la giovane e la descrizione sommaria della scena del crimine. “Non è mio compito mettere in rilievo le lacune della prima, ma non posso tacere che in un fatto di tale importanza non si sarebbe dovuta trascurare l’autopsia la quale ci avrebbe dato la vera ragione della istantaneità della morte e ci avrebbe fornito elementi utili nella risoluzione di questioni tutt’altro che secondarie”, afferma. È il 1884, vero è che la criminalistica è agli albori, non si isola, non si “congela” la scena del crimine, le tute bianche sono di là da venire, ma tralasciare un’autopsia non si fa. Non lo vuole dire, ma lo dice. Restano l’osservazione e l’esperimento, per stabilire se Teodora sia morta per caso o per scelta. E l’esperimento consiste nello sparare in tutti i modi e da qualunque distanza immaginabile, osservando come proiettili e soggetto attinto reagiscono.
Giacomo aveva dichiarato che la figlia stava a un metro da lui. Ma il nuovo perito prova a sparare. Spara col fucile in spalla puntando dritto davanti a sé, spara col fucile inclinato, spara a 50 cm, a 45, a 40, a 35, 30… E ogni volta osserva gli effetti del proiettile. E capisce che la quella ferita, con quella forma, con quella lesività e con quell’affumicatura della cute non possono essere determinate che da uno sparo a non più di 30 cm.
Fece quello che pochi anni più tardi, nel 1895, presso un Istituto di Medicina Legale in Polonia, fece il Dott. Eduard Piotrowski, che, per testare le sue teorie sull’origine delle tracce ematiche, costruì pareti di carta di grandi dimensioni per raccogliere le macchie di sangue formatesi uccidendo conigli. In questo modo, variando la tipologia di armi, la posizione dell’aggressore e la direzione dei colpi realizzò numerose tavole a colori che mostrano i risultati dei suoi esperimenti, dando origine a quella che oggi si chiama Bloodstain Pattern Analysis, la Bpa. Come Piotrowski, il Prof. Giacomo Pitzorno, sperimenta. E arriva a determinare che lo sparo non è avvenuto a una distanza superiore ai 30 cm e che è stata presa la mira.
Non è stato un incidente. Non ci sono state urla di disperazione. Il corpo della povera Teodora non è stato pietosamente adagiato su un pagliericcio e coperto da una manta. Giacomo non l’ha cullata in un ultimo, paterno, disperato abbraccio. Giacomo ha sparato con la volontà di uccidere, con l’intenzione di liberarsi di quella figlia.
Chi era Giacomo, allora? Era un tiranno quando protetto dalle quattro mura di casa e un padre amorevole agli occhi degli altri. Picchiava i figli. Mangiava solo lui, lasciando loro e la moglie a guardare. Aveva tentato di violentare Teodora. E soprattutto, non poteva sopportare che, per le nozze della ragazza, avrebbe dovuto sborsare 400 lire: l’equivalente di una botte di vino. Troppo.
A un anno dalla morte di Teodora, il 6 luglio 1885, arriva la sentenza: pena di morte, poi commutata in lavori forzati a vita.
di Lorena Piras
(Fonte: Archivio di Stato di Sassari. L’articolo originale è apparso su City&City).