Pochi minuti fa, dietro la porta bianca antipanico dell’aula 30, la presidente della Corte d’Appello di Firenze, Maria Cannizzaro, ha letto la sentenza: condannato Antonio Logli, per l’omicidio della moglie Roberta Ragusa. E’ la conferma della sentenza di primo grado. Spieghiamolo subito: perché 20 anni e non l’ergastolo? Perché la difesa di Logli ha chiesto a suo tempo il rito abbreviato e in questo caso i giudici non possono opporsi. Si celebra il processo senza dibattimento, sulle carte così come sono, e la pena eventuale è ridotta di un terzo. Punto. Il Procuratore Generale (questo il nome del Pubblico Ministero in Appello) Filippo Di Benedetto aveva chiesto la conferma del primo grado, cioè venti anni, ma anche l’applicazione della custodia cautelare in carcere. Che non è stata concessa. Come mai Logli non è in carcere? Perché secondo la Corte non sussiste il pericolo di fuga, il rischio che ripeta il reato e che inquini le prove. Ovvio che sul secondo e terzo punto è proprio così, sul primo la Corte ha evidentemente valutato che avendo già Logli l’obbligo di non muoversi dal paese di residenza, non c’è rischio.
Un omicidio che è stato comunque difficile valutare fin dall’inizio. Il primo punto fermo l’aveva messo la Cassazione che, nel marzo 2016, annullando l’iniziale proscioglimento di Logli, aveva scritto nero su bianco che non c’erano «possibili ipotesi alternative alla fine violenta della donna». D’altronde, era solare che la Ragusa non potesse aver tentato la fuga in pigiama. Restava pur sempre un omicidio difficile, come tutti quelli senza cadavere. Da quella notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012 di Roberta Ragusa non s’è saputo e trovato più nulla.
Nell’aula 30 con Logli c’erano anche il figlio Daniele e i suoi avvocati, Roberto Cavani e Saverio Sergiampietri. Difficile descrivere le emozioni di Logli, che è uomo assai controllato. In primo grado, dicevamo, davanti al Gup del Tribunale di Pisa, il 21 dicembre 2016, era finita con una condanna a 20 anni per omicidio volontario e distruzione di cadavere.
La ricostruzione che ha convinto i giudici dell’Appello è verosimilmente questa, cioè quella del Gup: lei sta facendo la famosa lista della spesa, lui sale in soffitta per telefonare a Sara Calzolaio, sua amante dal 2004, lei origlia, lui se ne accorge ed esce dicendo che va a mettere a posto le sedie all’autoscuola, lei lo segue così come si trova (in pigiama) e lo becca a telefono con l’amante, poco fuori casa. A quel punto scoppia la lite per strada, perché ormai la Ragusa ha scoperto tutto. Ed è come se fosse una lite che, per quanto notte fonda, esplode in piazza, perché tutte le case intorno sono dei Logli. Eccoli allora salire in auto e spostarsi nella vicina via Gigli, dove Logli uccide la moglie, per evitare un divorzio che avrebbe compromesso le proprietà di famiglia. Logli, infatti, divorziando avrebbe perso parte del patrimonio. La difesa aveva puntato molto sull’inattendibilità dei testimoni, che sono poi la chiave di volta del mistero: le loro testimonianze sono decisive tanto quanto i tabulati telefonici e le menzogne di Logli rappresentano un quadro indiziario col quale, simpatico o no che voglia starci l’uomo, non si può mandare in galera la gente.
Testi ce ne sono stati, come ben sapete. Ed in effetti due di loro sono stati ritenuti inattendibili in primo grado (non sappiamo ovviamente, al momento, quale valutazione di loro abbia dato di loro l’Appello). Ma Loris Gozi restava il più importante: vede “il signor Antonio” in via Gigli (nella foto sopra), sente lo sportello che sbatte, suono che coincide temporalmente con l’ultima chiamata di Logli a Sara Calzolaio, l’amante. Quella delle 00.18, di appena 28 secondi. La Corte d’Appello è proprio a questa ricostruzione, evidentemente, che ha creduto ed è alle menzogne e contraddizioni di Logli che non ha creduto.
L’anno prossimo sarà la Cassazione a chiudere o riaprire a sorpresa questa storia, giunta per ora al termine del secondo atto.
di Fabio Sanvitale