Palermo, 28 febbraio 1992. Per Monica Scalici, 16 anni, è un giorno diverso. Come tutte le mattine, la ragazza è andata a scuola: ma quel giorno c’è sciopero. Non le resta che tornare a casa, in via Renda 13, quartiere Altarello. Forse, com’è normale per una ragazza della sua età, è contenta: non dovrà sorbirsi noiose ore di lezione, potrà starsene a casa e fare ciò che più le va.
Sono circa le 9.30 quando Monica arriva a casa. Inserisce la chiave nella toppa; ma, stranamente, la chiave non gira. Forse sua madre, Giovanna, l’unica ad essere in casa – il fratello di 21 anni è al nord per il servizio di leva; il padre è in viaggio per l’Italia con un amico -, ha lasciato la chiave inserita nella serratura. A Monica non resta che suonare il campanello. Suona, suona, suona. Ma niente. Forse, allora, sua madre è già in ufficio; o dal nonno ammalato. Invece no. Non c’è.
Verso le 11.30, i vigili del fuoco entrano nell’appartamento della famiglia Scalici da una finestra. Giovanna Privitello, 48 anni, è lì, nel salotto; è morta. Qualcuno l’ha aggredita, per poi strangolarla. Non è tutto: sulla testa, presso il pube, sull’addome, su una coscia, il suo corpo presenta orribili bruciature, inferte con un ferro da stiro.
Gli uomini della sezione omicidi della Squadra Mobile di Palermo cominciano ad indagare. Giovanna ha fatto entrare l’assassino: non ci sono segni di effrazione, la chiave è nella toppa. Sul portachiavi, una macchia di sangue: l’assassino l’ha toccato? In casa non c’è disordine, non si tratta, a prima vista, di una rapina finita male. Su una mensola, tre ferri da stiro. Gli agenti li visionano (ma non li portano via per analizzarli: perché?), ma i ferri non presentano tracce tali da far ritenere che uno di questi sia stato usato per inveire sul corpo della Privitello; inoltre, da quanto appare sulla scena del crimine, Giovanna non stava stirando al momento del delitto. Ergo: l’assassino ha portato con sé il ferro da stiro.
Intanto, arriva il referto autoptico: Giovanna Privitello è stata prima colpita con un pugno al volto, poi con un oggetto contundente alla testa; è stata poi strangolata, probabilmente con la spalliera di una sedia; infine, dopo la morte, il suo corpo è stato ustionato con un ferro da stiro.
Chi è stato? Viene dapprima indagato un inquilino del palazzo, con cui Giovanna, in passato, ha avuto un alterco per un episodio di molestie. Ma il ferro da stiro dell’uomo (anch’esso soltanto visionato, non analizzato in altra sede) risulta incompatibile con le bruciature rinvenute sul corpo della donna. Il procedimento a carico dell’inquilino viene così archiviato.
E’ il marito di Giovanna Privitello, Giovanni Scalici, a fornire agli inquirenti la pista che verrà poi ritenuta quella giusta. Sentito dagli investigatori, Scalici afferma che, nonostante la sua vita matrimoniale fosse stata sempre serena, negli ultimi tre mesi le cose in casa erano cambiate: Giovanna era diventata diffidente, sospettosa, gelosa; questo per via di alcune telefonate di donne, che sfacciatamente chiedevano del marito qualificandosi come amiche dello Scalici, e di telefonate mute. Erano così cominciate le liti: Giovanna temeva il tradimento del marito, ed era arrivata a dirgli che stava indagando su di lui, che avrebbe scoperto le prove della sua infedeltà. Giovanni Scalici, interrogato sulle sue presunte infedeltà coniugali, ammette di aver avuto una relazione con una ragazza di 29 anni, Patrizia Campagna; aggiunge però di aver troncato la relazione tre mesi prima del delitto (proprio quando cominciano le telefonate…), perché si era stancato di quella tresca e perché, come avrebbe detto alla Campagna stessa, non avrebbe mai lasciato la moglie per lei. Ma Patrizia Campagna, secondo Giovanni Scalici, non si rassegnava alla fine del loro rapporto.
Gli investigatori, a questo punto, mostrano una foto di Patrizia Campagna agli inquilini del palazzo. E una di essi, la signora Graziella Volpes (moglie, tra l’altro, dell’inquilino inizialmente indagato per il delitto), alla fine, parla: ha visto Patrizia Campagna, la mattina del delitto, sotto il portone del palazzo; stava presso il citofono. Portava un cappotto sul rosso.
Patrizia Campagna viene convocata dagli inquirenti. E’una ragazza molto bella, Patrizia: lei ne è consapevole, tanto che aveva anche cercato di sfruttare quella sua dote facendo l’indossatrice. La ragazza ammette di aver avuto una relazione con Giovanni Scalici. Ammette anche di essere andata sotto il palazzo di via Renda la mattina del delitto. Ma non per uccidere. Per parlare con la moglie del suo ex amante. Giovanna Privitello, infatti, avrebbe telefonato a Patrizia il giorno prima del suo assassinio, le aveva detto chi fosse, che sapeva tutto, e le aveva chiesto un incontro chiarificatore. Patrizia era così andata all’appuntamento.
Le dichiarazioni di quella ragazza bionda dagli occhi chiari, però, stridono con quelle di Graziella Volpes: lei dice di aver visto la Campagna non sul cancello d’ingresso del palazzo – come la ragazza sostiene -, ma presso il portone; dice che quella mattina Patrizia Campagna indossava un soprabito rosso, non un cappotto di montone bianco, come afferma la ragazza; dice che quando ha visto la Campagna erano le 7.50, mentre Patrizia afferma di essersi trovata sotto il palazzo solo verso le 8.15.
Ma, soprattutto, Graziella Volpes dice qualcosa di inquietante, agli investigatori. Dice che Patrizia Campagna, quella mattina, stringeva tra le mani una cartellina rigonfia su un lato. Per loro non c’è dubbio: lì dentro c’era il ferro da stiro. E’lei l’assassina. Movente: eliminare la moglie dell’amante e tenersi per sé Giovanni Scalici, un uomo che, nonostante fosse solo un impiegato al Comune di Palermo, poteva permettersi un alto tenore di vita (Scalici giustificò questa contraddizione dicendo di aver vinto circa 130 milioni di lire all’enalotto e al totocalcio; ma nessuna indagine, in questo senso, fu condotta dalla polizia).
Patrizia Campagna viene così arrestata. Dopo cinque processi, svoltisi nell’arco di dieci anni, viene condannata a 21 anni per l’omicidio di Giovanna Privitello. Ma Patrizia continua per tutto il tempo a professare la propria innocenza. Non le interessavano i soldi di Scalici: era il suo fascino di uomo dall’aria rassicurante a far presa su di lei, non il suo denaro. E i due si erano lasciati di comune accordo, quando si erano accorti che i sentimenti che li avevano legati erano ormai scemati. Mai aveva fatto pressione perché Giovanni lasciasse la moglie; dunque, non aveva motivo di ucciderla.
Ma ci sono elementi molto più oggettivi a favore di Patrizia Campagna. Giovanna Privitello e il suo assassino hanno lottato, prima che la donna venisse uccisa, come ha dimostrato l’autopsia. Dunque, l’assassino poteva avere addosso i segni della colluttazione. Ma Patrizia Campagna non aveva su di sé lividi o escoriazioni riconducibili ad uno scontro, secondo le ispezioni corporali, che pure furono eseguite. Inoltre, anche il ferro da stiro di Patrizia fu soltanto visionato, non analizzato.
Infine, c’è quel portachiavi. Nessuno indagò su quella macchia di sangue rinvenuta sull’oggetto, nonostante all’epoca le tecniche scientifiche lo permettessero. E se il sangue sul portachiavi fosse quello dell’assassino, feritosi durante il corpo a corpo con Giovanna?
Restano tanti punti oscuri. Tante ambiguità, in questa tragica storia. E forse, dato il tempo trascorso da essa, è difficile che almeno su alcuni di questi punti si possa far luce oggi. Il caso Privitello, seppur risolto a livello giudiziario, resta aperto. Un giallo senza soluzione, in cui l’elemento preminente è, senza dubbio, quel ferro da stiro, che da subito ha spinto gli inquirenti sulla pista del delitto passionale. Un ferro da stiro mai trovato. O che, forse, non è mai stato veramente cercato.
di Salvatore Napoli