Ogni storia ha un suo elemento caratterizzante, una sua emozione preminente. In quella del cosiddetto “Landru del Tevere”, tale elemento è indubbiamente l’orrore. Si tratta di una storia macabra, raccapricciante, paurosa. Una vecchia storia, di tanti anni fa; dei tempi del fascismo. Una brutta storia, una storiaccia; che, però, vale la pena di raccontare, per non dimenticare mai che l’orrore più grande, a volte, si cela dietro la banalità del quotidiano. O, peggio, dietro l’illusione più luminosa.
Napoli, Stazione Centrale. E’il 16 novembre 1932, manca poco alle 10.30, quando arriva il treno n. 7 proveniente da Torino. Alcuni agenti della milizia ferroviaria effettuano l’ispezione delle carrozze; nello scompartimento di seconda classe, i militi rinvengono due grosse e pesanti valigie. Le trasportano all’Ufficio Bagagli; ma, stranamente, nessuno le reclama. Il giorno successivo, verso le 6.30, l’addetto all’ufficio è assalito da un puzzo nauseabondo; proviene proprio da quelle valigie. Per ordine del maresciallo della milizia, una di esse viene aperta: dentro, un corpo umano fatto a pezzi.
Verso le 18.00, la scena si ripete pressoché identica alla Stazione Termini di Roma: una valigia trovata sul treno n. 5 della tratta Torino-Genova-Roma giunto alla stazione verso le 6.30, portata all’Ufficio Bagagli e da cui, ad un certo punto, si sprigiona un tanfo insopportabile. La valigia contiene resti umani; per la precisione, quelli che mancano ai medici di Napoli per ricomporre il corpo straziato rinvenuto sul treno n. 7.
Mentre la notizia fa il giro dell’Italia intera, partono le indagini: chi è la vittima? Ma soprattutto: chi è l’assassino? I periti che analizzano il corpo smembrato dicono che la vittima è una donna sui trent’anni. Causa del decesso: strangolamento. S’indaga, di conseguenza, su diversi casi di donne scomparse in varie zone d’Italia negli ultimi tempi; ma, inizialmente, gli esiti sono negativi.
Le indagini sull’assassino, invece, fanno progressi: la sera del 15 novembre è salito sul treno per Napoli alla stazione di La Spezia, come afferma il controllore Giovanni Salviati, che quella sera, sul treno n. 7, aveva elevato una contravvenzione ad un individuo che viaggiava in seconda perché le sue valigie pesavano troppo; è sceso poi a Pisa, come si ritiene certo il conte Giuseppe Pallavicini, salito sul quel treno a Viareggio. I testimoni ci sono e, seppur con varie discordanze, riescono a fornire agli investigatori una descrizione approssimativa dell’enigmatico assassino: un uomo di statura media, sulla quarantina, con i baffi, non molto abbiente, a giudicare da come veste.
A dicembre, circa un mese dopo i macabri ritrovamenti, si arriva finalmente all’identificazione della vittima: Paolina Gorietti, 29 anni, cameriera presso una famiglia benestante dell’Esquilino, a Roma. A denunciarne la scomparsa e a riconoscerne il corpo Olga Melgradi, un’amica, e Gino Gorietti, suo fratello. L’amica riconosce anche una delle valigie contenenti il corpo di Paolina; era stata proprio Olga a prestarla alla Gorietti. Paolina – dice la Melgradi agli inquirenti – aveva risposto ad un annuncio matrimoniale letto su un quotidiano romano nel mese di ottobre; interessata, aveva contattato l’autore dell’annuncio per poi incontrarlo; infine, dopo alcuni appuntamenti con lo spasimante, a suo dire un maresciallo in pensione, aveva deciso di sposarlo. Il 4 novembre era così partita con quell’uomo, che le aveva chiesto di seguirla a La Spezia: lì aveva conoscenze che gli avrebbero permesso di sbrigare più celermente le pratiche per il matrimonio. Da quel giorno, nessuno aveva avuto più notizie di Paolina Gorietti. Gli inquirenti mostrano a Gino e ad Olga le foto del cadavere ricomposto: è lei, non c’è dubbio.
Il 13 dicembre, alle ore 21.00, viene finalmente arrestato l’autore dell’annuncio matrimoniale. Si tratta di Cesare Serviatti, ex infermiere disoccupato, 53 anni, robusto, pochi capelli, folti baffi neri; un fannullone amante delle donne e della bella vita, che aveva fatto i più svariati mestieri prima di darsi alle truffe. Interrogato per tutta la notte, all’inizio nega; poi, all’alba, stremato, confessa, seppur a modo suo: il 13 novembre aveva ucciso Paolina Gorietti accidentalmente, durante una lite, sferrandole un calcio nel ventre (la donna, a suo dire, voleva togliergli di mano il rasoio che in quel momento stava usando per farsi la barba); aveva deciso poi di liberarsi del corpo facendolo a pezzi e mettendolo in tre valigie: due le aveva lasciate sul treno n. 7 la sera del 15 novembre; la terza, il giorno dopo, sul treno n. 5; risistemato l’appartamento spezzino in cui aveva commesso l’omicidio, Serviatti era tornato infine a Roma.
In realtà, come riveleranno le indagini, l’uomo ha ucciso a scopo di lucro: ha rubato alla Gorietti 4000 lire, cifra considerevole per l’epoca, che ha usato per pagare vari debiti e per estinguere alcune polizze di pegno.
Non solo. A quanto pare, Serviatti non è al primo delitto. Secondo gli inquirenti, quattro anni prima, nel ’28, avrebbe ucciso Pasqua Bartolini, 54 anni, come si evince dalla testimonianza di Rita Sinigardi Vezzani, un’amica della vittima. La trafila è la stessa, secondo ciò che Rita racconta: Pasqua risponde ad un annuncio matrimoniale sul giornale ed incontra Serviatti, che la convince a trasferirsi a La Spezia, dove gestisce una pensione. Nessuno la vedrà più. Nel corso di un lungo interrogatorio, Serviatti confessa il delitto: anche il corpo di Pasqua è stato fatto a pezzi, chiuso in due valigie e gettato in Arno a Pisa. Il movente? Il danaro e gli averi di Pasqua, secondo gli investigatori.
Non è finita. Nel novembre del 1930, sulla spiaggia di Santa Marinella, viene rinvenuta una gamba umana appartenente ad una donna; pochi giorni dopo, un’altra è ritrovata sul litorale di Ostia. Gli inquirenti ci mettono poco a fare due più due. La famiglia Nebiolo, pochi giorni prima del macabro ritrovamento, aveva denunciato la scomparsa della propria domestica, tale Beatrice Margarucci, 50 anni: Bea, come la chiamavano, aveva detto loro che si licenziava per sposarsi, ma alle richieste della famiglia di conoscere il futuro sposo si era stranamente opposta. Serviatti, interrogato, confessa: l’ha uccisa, tagliata a pezzi, messa in tre sacchi e, di notte, con un carretto a mano, l’ha trasportata presso il ponte Palatino, gettandola poi nel Tevere. L’ha uccisa per difendersi, dice anche stavolta. Ma il motivo, in realtà, è il solito: i soldi. Bea aveva lavorato negli Stati Uniti, ed era tornata in Italia con più di 8.000 lire.
A metà del giugno 1933 comincia il processo a Cesare Serviatti, accusato di triplice omicidio. Non è l’unico imputato: con lui sono processate la moglie, Angela Taborri, e la dattilografa Barberina Baldelli, amante del Serviatti, che viveva insieme alla coppia nell’appartamento di via Principe Amedeo – un vero e proprio menage a trois -, dove Serviatti fu arrestato; sono accusate di essere complici dell’assassino. Le due donne, però, vengono assolte. Serviatti, invece, è condannato a tre ergastoli e alla pena di morte. La perizia psichiatrica richiesta dalla difesa non viene concessa.
Il 13 ottobre del 1933, poco dopo le sei di mattina, Cesare Serviatti viene portato dal carcere al poligono di Sarzana. Davanti ad una folla di circa 6.000 persone, accorse sul posto per assistere alla fine del Landru italiano, viene fucilato. Verrà sepolto nel cimitero della città.
Il mostro è morto; nessuno è più in pericolo. Ma il caso del Landru del Tevere non verrà dimenticato: ancora oggi, più di ottant’anni dopo, molti ne scrivono e ne parlano. Forse, perché c’è bisogno di una storia come questa, per capire quanto può essere buia l’anima di un uomo. Per capire che, a volte, dietro la più sublime delle emozioni, si cela beffardamente l’orrore più subdolo e meschino. E che anche un mostro, a volte, può camuffarsi da principe azzurro.
di Salvatore Napoli