Martina Rossi aveva vent’anni e tanta voglia di divertirsi quando, ai primi di agosto del 2011, partì con alcune amiche per una vacanza a Palma di Majorca, in Spagna. La sua prima vacanza da grande, senza i genitori, che si erano fidati a lasciarla andare proprio perché lei era una brava ragazza, semplice e solare. Ma a poche ore dal suo arrivo, all’alba del 3 agosto, succede qualcosa di terribilmente incomprensibile. Dopo una serata in discoteca, Martina precipita da un balcone del sesto piano dell’hotel S. Ana, dove soggiornava. Non era nella sua stanza, ma nella 609, quella di altri due ragazzi italiani della provincia di Arezzo, conosciuti quella sera stessa.
Suicidio, sentenziano in tutta fretta le indagini spagnole. Ma i genitori di Martina Rossi non ci stanno, lottano e nel 2012 riescono a far aprire un’inchiesta alla Procura di Genova, poi trasferita per competenza ad Arezzo. Già, perché le nuove indagini portano sempre più a collegare la morte di Martina a qualcosa che sarebbe successo nella stanza 609, nei minuti precedenti quel drammatico “volo”. L’ipotesi della Procura di Arezzo, infatti, è che Martina sia scivolata nel tentativo di raggiungere un altro terrazzino per sfuggire ai due ragazzi che la volevano violentare.
E così, ieri, Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni sono stati rinviati a giudizio: morte come conseguenza di un altro delitto, nella fattispecie il tentativo di violenza, è il reato ipotizzato. Al processo, che si aprirà il prossimo 13 febbraio, si tornerà a parlare di quell’intercettazione ambientale (qui il VIDEO dell’intercettazione) nella quale i due imputati parlano della morte della ragazza e della mancanza di segni di violenza sessuale, ma si discuterà anche del tipo di caduta e dei segni presenti sul corpo della giovane.
Non sarà un processo facile, ma bisognerà andare fino in fondo con tutta la determinazione possibile per dare, una volta per tutte, una spiegazione alla tragica fine di Martina Rossi. Che, ricordiamolo, non era che all’inizio di quella tanto desiderata vacanza.
di Valentina Magrin