Risposta: ognuno per un motivo diverso. Se ne sono accorti gli addetti ai lavori e CN è qui per spiegarvelo. Il punto è questo: sono due processi le cui sentenze hanno cambiato, una più e una meno, quelli che saranno i processi futuri. Due sentenze che non si potranno ignorare, insomma.
Partiamo da Garlasco. La sentenza della Corte d’Appello di Milano che il 17 dicembre 2014 ha condannato Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi (condanna poi confermata in Cassazione) non ha introdotto davvero un principio nuovo, ma ne ha ribadito con forza uno che può sembrare strano, ma che giuridicamente non fa una piega: sapere o non sapere qual è il movente non è per forza una cosa così importante. Vi sembra strano? E invece è un principio-cardine del nostro Codice Penale, da oltre mezzo secolo. Il movente è uno degli elementi per dimostrare la responsabilità dell’imputato, certo: ma se ho altri elementi di prova e sono sicuro della colpevolezza, cosa cambia sapere se Stasi ha ucciso per gelosia, per rifiuto, per le foto porno nel pc? È irrilevante. La Corte d’Appello l’ha ribadito con forza. Pensateci bene: sapere il movente è più un problema dell’opinione pubblica, di noi giornalisti. E infatti quando vanno a concludere, in sentenza, scrivono: “anche se il movente dell’omicidio è rimasto sconosciuto, ancora una volta è la scena del crimine a individuarlo in quel “rapporto di intimità che scatena una emotività” che non può che appartenere che ad un soggetto particolarmente legato alla vittima”. E poi via andare, si passa alle contraddizioni, al sangue di lei sui pedali, alla conoscenza della casa, alle impronte sul dispenser. Sì, il movente non è necessario per un ergastolo, quando ci sono tante prove come queste, per darlo.
La sentenza della Corte d’Appello di Brescia del 17 luglio 2017, sul caso Gambirasio, dà invece delle regole precise sul dna, introduce novità importanti sulle regole per fare sì che quella genetica sia una prova inconfutabile. La sentenza è una specie di micro-trattato sulla materia: qual è il dna che può incastrare una persona, come dev’essere fatto, repertato, se e quando il mitocondriale conta e non conta. E poi le modalità di conservazione all’aperto, oltre a un bel ripasso del numero di alleli necessari a individuare un individuo. Questa lunga spiegazione che i giudici danno -e che occupa decine di pagine- è una vera novità, invece: e ha inchiodato Bossetti all’ergastolo. Nell’ambiente si dice che sia un punto fermo che non potrà essere ignorato dalle sentenze che arriveranno dopo, in altri processi. “E’ sicuramente una sentenza importante perché pone dei punti fermi sul tema genetico in ambito forense, punti che se messi in discussione aprirebbero scenari del tutto imprevedibili: mi riferisco ad esempio a tutti quei processi dove viene richiesto il test del DNA per l’attribuzione di una paternità”– dice Silvia Gazzetti, l’avvocato che ha difeso Bossetti nei primi 6 mesi dopo l’arresto. “Bossetti è un uomo non facile da decifrare, è rimasto sempre sulla sua posizione: anche se la sua capacitò di mentire non lo ha certamente aiutato” aggiunge la Gazzetti. E non trova che portare il dibattito su quel dna in tv, da parte della difesa, sia stato un boomerang? “Quella stessa sentenza che lo condanna ci fa capire che l’aspetto mediatico del processo ha finito per danneggiarlo e che ciò che conta nei processi in tribunale sono le prove e non i dibattiti televisivi”.
E in effetti le due sentenze serviranno proprio a questo: a riportare le valutazioni delle Corti di domani sui giusti binari, lontani da riflettori, microfoni, ospitate e presunte verità scientifiche.
di Fabio Sanvitale