Era esattamente l’11 agosto del 1977 quando New York uscì finalmente dall’incubo del “Son of Sam”, un serial killer coi fiocchi che dal 1976 aveva usato la sua pistola contro donne e coppiette. Un modus operandi che, in parte, ci ricorda quella del Mostro di Firenze. Quel giorno d’agosto, sui giornali, gli americani poterono dargli un nome e un cognome: David Berkowitz. Ma vediamo cos’era successo (forse vi ricorda qualcosa, vero? Magari “L’estate di Sam”, il film di Spike Lee del 1999).
Sei morti e otto feriti fu quello che il “Son of Sam” riuscì a fare. Usciva di casa di notte, girava senza uno scopo preciso, sparava contro la prima donna che vedeva o la prima coppietta che incontrava, a patto di essere sempre in un punto isolato. La polizia di New York era esterrefatta, sia perché erano omicidi senza senso, sia perché usava una 44, arma potentissima e letale, praticamente esagerata per sparare da pochi metri. Il killer mirava sempre alla testa. Non avevano mai visto qualcosa di simile. Bronx e Queens divennero il suo territorio di caccia.
La prima vittima arrivò la sera del 29 luglio 1976: Donna Lauria, 18 anni. Uscì dall’auto di un’amica, Berkowitz sparò. Poi, altri due colpi all’amica di Lauria, che fu ferita. Poi altri assalti a ottobre e novembre. Soltanto nel gennaio del 1977 la polizia collegò tra loro le aggressioni. Ci prese gusto, Sam. Scrisse una lettera a un giornalista e ne lasciò una, per il detective Joe Borelli, che guidava la caccia, vicino una scena del crimine. C’era la celebre frase «Io sono un mostro. Io sono il figlio di Sam».
Fu il terrore. Si dice che in quei mesi centinaia di ragazze si tagliarono i capelli o li tinsero chiari, perché Sam uccideva solo quelle con capelli lunghi e scuri. Ma il 31 luglio del 1977 Sam commise un errore sulla scena del delitto Moskowitz, una ragazza di 20 anni che si stava baciando in auto con il fidanzato, Robert Violante. 4 colpi, mira perfetta. Stacy Moskowitz morì e Violante perse un occhio. L’errore fu di aver parcheggiato vicino a un idrante. Una donna che portava il cane a fare un giretto vide un tizio che guardava una multa sul suo parabrezza, non lontano dalla scena del crimine. Una scena qualsiasi, se non le fosse sembrato che avesse qualcosa di scuro in mano. Una pistola, magari calibro 44? C’era un remota possibilità, e la polizia decise di seguirla. L’omicidio era avvenuto poco prima. Esaminando tutte le automobili multate in quella zona, quella notte, la polizia risalì all’auto di David Berkowitz. Quando uscì per avvicinarsi all’auto gli furono addosso. «Perché ci avete messo così tanto?», disse lui.
Berkowitz, classe 1953, era stato un ragazzo difficile fin da piccolo. Furti, piccoli incendi. Aveva combattuto in Corea del Sud e al ritorno a casa la madre gli aveva rivelato di essere stato adottato, il che l’aveva squilibrato del tutto. Dopo un anno, la sua 44 aveva cominciato a cantare.
Durante il processo ammise di essere colpevole, ma si difese dicendo che era stato Harvey, il cane labrador del suo vicino (che si chiamava appunto Sam) a ordinargli di uccidere. Non funzionò. Fu giudicato in grado di intendere e di volere e condannato a 25 anni per ogni omicidio. Anni dopo ammise che la storia del cane se l’era inventata e divenne un fervente credente (il suo sito è qui). E’ ancora dentro.
di Fabio Sanvitale