Ergastolo. Il processo d’Appello per l’omicidio di Yara Gambirasio si conclude con questa parola, che pesa come una montagna, come una città al buio, come un frontale in galleria. La Corte di Brescia ha respinto la richiesta di nuove analisi del dna e non ritenuta utile la foto satellitare presentata nel corso del processo dalla difesa. E confermata la condanna di primo grado per Massimo Bossetti. Fine pena: mai. Anche nel processo d’Appello ha retto la prova del dna, al di là dei tentativi della difesa, al di là delle infinite discussioni tra criminologi della domenica. Attendiamo la Cassazione; per ora, il timbro di colpevole resta dov’era. Su Bossetti.
La Corte era riunita ormai dalle 9.15 di stamattina. Una Camera di Consiglio lunga e appropriata alla complessità della vicenda, che è stata e resterà tutta tecnica. Sappiamo bene di cos’hanno parlato. Non è mai stata, questa, una questione di celle telefoniche. E forse nemmeno tanto di alibi. Di foto delle telecamere, sì. Ma soprattutto di dna. Del perché e del per come in un essere umano il mitocondriale può o non può essere diverso dal nucleare (i genetisti della difesa contro quelli dell’accusa: una battaglia epica). Si chiude un processo in cui la scienza è stata determinante, in cui sui media e sui social si è buttato in piazza tutto, fino all’insulto, fino all’intolleranza. Pochi hanno saputo conservare la calma e l’equilibrio. Pochissimi. Ancor meno quelli che hanno conosciuto la discrezione. Si potrebbero dire molte cose. Invece ci vengono in mente solo i visi di Maura e Fulvio, i genitori di Yara. Ecco, solo i loro visi, nient’altro. Nient’altro.
di Redazione