Erano gli anni confusi tra il 1979 e il 1983, quelli in cui passammo dall’impegno al disimpegno, dai valori alla ricerca della ricchezza. Sui giornali la chiamarono la “Banda dell’Arancia Meccanica”, tanto per citare quel tipo di violenza insensata, fine a sè stessa, che quel genio di Kubrick aveva portato sullo schermo. Non sappiamo se lui, Agostino Panetta, romano, poliziotto della Celere di Torino, ridesse di questa definizione, ma è probabile. Di certo gli piaceva quello che faceva. Alto, muscoloso, licenza media presa a stento, padre poliziotto (all’epoca si diceva: guardia di pubblica sicurezza) severo e autoritario, borgataro del Casilino, Panetta era entrato in polizia a 18 anni, ma un anno dopo decise che lo stipendio di 250.000 lire era una miseria. Ma non solo. “Ho avuto l’ ossessione di non valere nulla per tutta la fanciullezza, l’ adolescenza. Ho fatto tanti lavori precari, ma non sopportavo le imposizioni. Mio padre mi aveva educato come i suoi cani. Li teneva legati tutto il giorno, li incitava a catturare le galline. Quando li slegava, quelli scaricavano un’ aggressività devastante. Così è stato per me”. E passò dall’altra parte. Mise su una banda e cominciò a fare rapine con dei colleghi. Lo buttarono fuori dalla Polizia: abbandono di servizio. Tornò a Roma e si organizzò. Nessuna rivalsa sociale, solo violenza, voglia di soldi e di protagonismo. Roma fu il suo regno di terrore. Agiva con un solo complice. All’epoca non c’era il dna, loro impronte non ne lasciavano o ne lasciavano poche, il resto erano identikit di facce che non si riusciva a catturare. Nessuno saprà mai quante rapine hanno fatto: 700 è una stima, provate sono 74. Cominciarono per strada, all’impronta, al volo, anche cinque per sera: gente con la grana fermata mentre rientrava a casa la notte, facce da ricchi assaltate mentre andavano a riprendere la macchina, mentre stavano camminando con la loro aria profumata. Pedinate dopo essere uscite dai bar eleganti o intercettate ai semafori. Prendevano quello che trovavano: ori, pellicce, portafogli, orologi. Rapidi, rapaci e violenti. Finalmente, Panetta sentiva di valere qualcosa. Di essere invincibile.
Ma quando nel 1981 iniziarono a entrare nelle case la musica fu diversa. Lo fecero per prendere di più, per salire di livello, ma lì scattarono altre molle. Ci finirono in mezzo Fabio Testi (dice che finì che a casa sua bevvero champagne insieme), Little Tony, Franco Cristaldi, l’ex arbitro Ciulli. Tenere la gente legata per tutto il tempo era sequestro di persona; e poi 7 stupri (tutti confessati) che servivano a farsi dire dove stava l’oro. E poi quel tizio a cui misero la testa nel lavandino pieno d’acqua per fargli dire dov’era la cassaforte.”Per me era gratificante soprattutto ottenere il massimo rendimento con il minimo della violenza“, disse. Non andò così. Avevano perso il controllo. C’erano le botte, le minacce, c’era il resto. “Un giorno del 1981 puntammo per strada una coppia. La donna era stata riaccompagnata a casa da un amico. Li immobilizzammo; le imponemmo di portarci in casa. Lei resistette: non voleva far incontrare il marito con l’ amico. Noi li legammo in due stanze diverse. Mentre raccoglievamo gli oggetti in giro per la casa, lei tentò di ammansirci. Ci diceva: “Perchè lo fate? Siete così carucci…”. Mi scattò una molla in testa. Dunque la minaccia sessuale poteva pagare, facilitare. Con quella donna ebbi un rapporto orale. Lei lo ha negato e ancora lo nega. Avrà le sue ragioni”. Un’altra, dice sempre Panetta, praticamente si offrì per evitare il peggio. Tutti i criminali devono sempre sminuire i loro reati, senza chiedersi se la ragazza si sarebbe offerta lo stesso, se lui non avesse avuto un’automatica in mano e il ghigno cattivo. Si dileguavano alle 5.30 di mattina, mezz’ora prima del cambio delle Volanti: tutto studiato. Ma quel modo di perquisire le vittime (faccia al muro, gambe divaricate) faceva pensare a ex militari.
Voleva di più, Panetta. Ci riuscì. 15 miliardi di bottino totale stimato, un miliardo e mezzo la sua parte che, ovviamente, non seppe tenersi e buttò nel cesso. Comprò il bar “Pachita”, a Torre Angela. Ma poi rientrò nel giro. L’occasione per cambiare vita l’aveva avuta e l’aveva gettata via. Quando li presero in via Linneo, ai Parioli, non gli restò che vuotare il sacco e mandare in galera più di 50 complici. “Io so di dover pagare. Ne ho fatte tante… io che non ho mai sopportato la prepotenza sono stato un prepotente: ho colpito vittime senza colpa, seguito la via più trucida e più brutta per dimostrare la mia pericolosità. Quella che, allora, mi sembrò una conquista, una rivalutazione di me stesso“. Un padre dedito a una vita di lavoro e sacrificio che però non pagava, la borgata, gli amici: ricorda la storia di Nino Mancini, uno dei boss della Banda della Magliana.
Si pentì, non funzionò. Vent’anni di galera lui e pene pesanti ai suoi complici. Poi nel 1996 gli trovarono due volte della droga e prese altre condanne. Nel 2003 lo fermarono: era in permesso premio ma aveva un etto di cocaina. Nel 2012 ha raccontato la sua storia in un libro, “Il sentiero dei camosci”. Il suo “fine pena” è arrivato nel 2015. Sembra che la lezione l’ha imparata.
di Fabio Sanvitale