Si chiude un altro capitolo di quella che ormai, suo malgrado, sta diventando una vera e propria saga: il delitto di Garlasco. Il giudice Barbara Bellerio della Corte d’Assise d’Appello di Milano ha infatti depositato le motivazioni per le quali, lo scorso 17 dicembre, ha condannato Alberto Stasi a 16 anni di carcere (con rito abbreviato) per l’omicidio della sua fidanzata, Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007.. Si tratta del processo di Appello Bis, dopo che la Cassazione nel 2013 aveva annullato le due precedenti assoluzioni.
“Alberto Stasi ha brutalmente ucciso la fidanzata – ecco un passaggio delle 140 pagine che compongono il fascicolo – che evidentemente era diventata, per un motivo rimasto sconosciuto, una presenza pericolosa e scomoda, come tale da eliminare per sempre dalla sua vita di ragazzo ‘per bene’ e studente ‘modello’, da tutti concordemente apprezzato”.
“Un motivo sconosciuto” che, forse, potrebbe nascondersi nel computer dell’ex studente bocconiano, che però nel 2014 è stato definitivamente assolto dall’accusa di detenzione di materiale pedopornografico.
L’omicidio di Chiara Poggi è avvenuto tra le 9.12 e le 9.35 del mattino: questa “finestra temporale”, per i giudici, “può ora darsi per pacifica”. In quei minuti Alberto Stasi ha avuto tutto il tempo di uscire di casa, raggiungere l’abitazione della fidanzata, ucciderla, tornare a casa e mettersi a lavorare alla tesi di laurea al computer. Un comportamento lucido e freddo, che ricorda la telefonata al 118 avvenuta qualche ora più tardi: ecco il video della telefonata di Alberto Stasi.
Chiara, lo si è detto più volte, non avrebbe mai aperto la porta a uno sconosciuto, tanto più che era in pigiama. Infatti, secondo i giudici, la ragazza era “così tranquilla, aveva così fiducia” nella persona che aveva davanti “da non fare assolutamente niente, tanto da venire massacrata senza alcuna fatica, oltre che senza alcuna pietà”. E continuano “la dinamica dell’aggressione evidenzia come Chiara non abbia avuto nemmeno il tempo di reagire”. Tutto questo “pesa come un macigno […] sulla persona con cui era in maggior e quotidiana intimità”, quindi su Alberto Stasi, il quale “dopo aver commesso il delitto […] è riuscito con abilità e freddezza a riprendere in mano la situazione e a fronteggiarla […] facendo le sole cose che potesse fare, quelle di tutti i giorni: ha acceso il computer, visionato immagini e filmati porno, ha scritto la tesi, come se nulla fosse accaduto”.
Stasi, dunque, mente quando afferma di essere entrato in casa Poggi solo alle 13.50 e di aver trovato il cadavere della fidanzata riverso sulle scale che scendevano in taverna. A sostegno di ciò, c’è anche la perizia fatta eseguire dalla Corte, secondo cui è impossibile che l’imputato sia transitato “dal luogo del delitto nei termini da lui forniti, ed escludono altresì che tale passaggio possa essere avvenuto senza il trasferimento di sangue sulle sue scarpe prima e sui tappetini dell’auto poi” .
Inoltre, quella dell’anulare destro di Stasi sul dispenser del sapone di casa Poggi è l’unica impronta trovata su quell’oggetto, che era in uso a tutta la famiglia. E l’assassino in quel bagno è entrato di sicuro, viste le tracce di sangue presenti. Infine, “la presenza di notevole quantitativo di dna della vittima” nei pedali della bicicletta di marca Umberto Dei utilizzata da Alberto sarebbe significativo, tanto più che questi pedali erano stati scambiati con quelli di un’altra bicicletta, sempre appartenente alla famiglia Stasi ma più simile a quella notata da una testimone nei pressi di casa Poggi il giorno dell’omicidio. È evidente, secondo la Corte, che Alberto Stasi ha “subito sviato le indagini senza mettere a disposizione degli inquirenti tutto quanto aveva via via interesse investigativo”.
Insomma il quadro indiziario forse non ha portato i nuovi elementi sperati (ricordiamo ad esempio il famoso capello biondo trovato tra le mani di Chiara, che non si è riusciti a capire a chi appartenesse), ma per i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano il consolidamento degli indizi presenti è più che sufficiente a ribaltare le precedenti sentenze. L’avvocato Giarda, nel frattempo, ha già annunciato che farà ricorso in Cassazione. La parola “fine”, per questa vicenda, è ancora lontana.
di Valentina Magrin