Era il febbraio del 1988. Era Roma. Un’altra Roma, in cui la Banda della Magliana aveva ancora un peso, anche se ormai stavano finendo di ammazzarsi tra loro, come sempre. Un ragazzo non torna a casa per pranzo. Si chiama Giancarlo Ricci, ma lo conoscono come er pugile. La mamma, la famiglia, lo cercano disperatamente, strada per strada. Niente. La notte passa in piedi. La mattina dopo, un cadavere fumante emerge da una squallida radura del quartiere. E’ Giancarlo, ucciso, mutilato e bruciato.
La Squadra Mobile ci mette 48 ore ad arrestare il colpevole: si chiama Pietro De Negri e fa il canaro, insomma ha un negozio per la toelettatura dei cani (nella foto), vicino casa di Ricci. Entrambe hanno piccoli precedenti penali, ma la confessione di De Negri, fuoriuscita a notte fonda, è agghiacciante. L’ha colpito, l’ha torturato per 9 ore con benzina e tronchese. Il piccolo tolettatore diventa un personaggio fascinoso, simbolo del male, pur nella sua ripugnanza. Ricci diventa quello che lo perseguitava in tutti i modi, meritandosi la giusta vendetta. Così, d’altronde, la racconta l’assassino nel suo memoriale. E piace, la sua verità. Lo condannano, ovviamente.
Poi succede -scusate se ci autocitiamo- che un giornalista investigativo (Fabio Sanvitale) e un esperto della scena del crimine (Armando Palmegiani), che di indagini insieme ne hanno fatte tante, prendano tutte le carte di questa storiaccia, ritrovino i testimoni, esaminino di nuovo tutto coi loro esperti e si accorgano che De Negri ha detto un mucchio di balle. S’è scordato di aver avuto un probabile complice. Ha inventato le persecuzioni, ha inventato gran parte delle torture. Ne vengono fuori un altro assassino e un’altra vittima. E una storia incredibile, lucida e sanguinaria. E un libro inchiesta sul Canaro: “Sangue sul Tevere” (Sovera Editore).