Massimo Bossetti non è più in cella d’isolamento, ma le motivazioni della difesa non riescono, a tutt’oggi, a spostare d’un millimetro i caposaldi dell’accusa. Resta lui, per ora, l’unico indiziato per l’omicidio di Yara Gambirasio.
Innanzitutto, le prove sono quattro: dna, cellulare, calce, fratellino di Yara. Il resto sono chiacchiere, al momento: cosa ci fosse nel pc di Bossetti non lo sappiamo (la perizia informatica deve essere depositata), le telecamere hanno inquadrato soltanto un furgone simile a quello del muratore (se la targa fosse stata ben leggibile, la Procura avrebbe detto da un pezzo che le prove erano cinque, non quattro!), gli amanti della moglie sono chiacchiere da parrucchiere che non commentiamo, che Bossetti ci provasse con altre donne ovviamente non è una prova di nulla e tanto meno che quel giorno fosse o no al lavoro, visto che il delitto è avvenuto comunque ben oltre l’orario di chiusura del cantiere.
In realtà le prove vere non sono nemmeno quattro, ma una: e su questo ha ragione Claudio Salvagni, avvocato di Bossetti. La calce, trovata in corrispondenza delle ferite, infatti, per motivi tecnici non è comparabile con altri tipi di calce, e quindi non dice nulla. Le dichiarazioni del fratellino di Yara disegnano un uomo sospetto, sì, ma che tuttavia non assomiglia a Bossetti.
Restano il dna ed il cellulare. Ed è qui infatti che Salvagni ha provato a dare battaglia. Solo che gli è andata buca. Nei giorni scorsi un aiuto gli era venuto dalla consegna delle perizie sui peli ritrovati sul cadavere. Oltre 200 tracce, di cui dieci in condizioni tali da poter dire che fossero sicuramente umane; e di queste due della stessa persona. Solo che non si sa di chi, mentre delle altre 190 non è nemmeno possibile dire se siano di un uomo, donna o animale. Sembra che nessuna delle dieci tracce buone corrisponda a Bossetti. Ma neanche questo fatto potrebbe aiutarlo: è il dna che lo inchioda.
Gli avvocati c’hanno provato a chiedere la nullità della perizia sul dna, perché disposta dalla Procura con lo strumento della delega d’indagine e non come un atto che richiedeva la presenza di consulenti della difesa; quindi, in contraddittorio. Il Riesame ha detto no. Al di là delle disquisizioni di procedura, la faccenda è questa: la difesa dice che bisogna dimostrarlo che quel dna è di Bossetti, che la traccia G20, quella che lo incastra, a contenuto misto (Yara+Bossetti), è una strana perla nel deserto. Proprio strana: in quel corpo così devastato, una traccia così completa, perfetta da analizzare! Lo abbiamo chiesto alla genetista Marina Baldi: “Invece è possibilissimo, non c’è nulla di strano. E’ stato estratto il dna da mammouth che erano conservati nel ghiaccio da decine di migliaia di anni! Se l’hanno estratto vuol dire, semplicemente, che era possibile farlo”.
Quello che Salvagni dovrebbe spiegare alla Corte (e qui sta il difficile) è come diavolo è possibile che tra tutti i profili che potevano saltar fuori dal dna è uscito non quello di un abitante di Salerno, ma di un Bossetti Massimo che abita a due metri da lì, che aveva i mezzi ed i tempi per commettere il delitto, che non ha alibi. Insomma, proprio lui doveva saltar fuori? D’accordo, può sembrar strano che ci sia una sola goccia di sangue dell’indagato sul cadavere: ma, strano o no, c’è. Ed è quello che conta. La contaminazione va dimostrata dalla difesa, come cercarono di fare per Meredith, come per via Poma. Senza questo tentativo, sarà ergastolo. (Continua…)
di Fabio Sanvitale