di Valentina Magrin direzione@calasandra.it
12 giugno 2013
Si chiama Marco Fassoni Accetti. Ve ne abbiamo ampiamente parlato nelle scorse settimane. E’ un artista (la foto qui accanto è una delle sue opere, tratta da www.operedimarcofassoniaccetti.it). Si tratta dell’uomo che ha fatto ritrovare un flauto dicendo che è di quello di Emanuela Orlandi. L’uomo che dice di essere uno dei telefonisti del sequestro, forse quello soprannominato “l’Americano”. L’uomo, in buona sostanza, che se dicesse la verità rappresenterebbe la chiave di volta per risolvere, dopo 30 anni, uno dei più ingarbugliati misteri della storia d’Italia: il rapimento della quindicenne vaticana Emanuela Orlandi. Non solo, perché Fassoni Accetti ha dichiarato di aver avuto un ruolo anche nella sparizione di Mirella Gregori, un’altra ragazzina scomparsa da Roma un mese prima di Emanuela. Se dicesse la verità, appunto. Ma per ora le certezze tardano ad arrivare. L’esame del dna sul flauto non ha evidenziato tracce della sua presunta proprietaria. Per quanto riguarda la perizia fonetica, come ci ha spiegato il professor Roberto Cusani (ordinario di Ingegneria delle Telecomunicazioni alla Sapienza di Roma) sarà davvero difficile, per non dire impossibile, dare qualche certezza circa l’identità tra la voce dei telefonisti (registrata all’epoca su audiocassette) e Fassoni Accetti. Insomma, quanto emerso finora non basta, ci vorranno delle altre e più significative dimostrazioni affinché il nuovo testimone possa risultare attendibile.
Nel frattempo noi di cronaca-nera.it l’abbiamo incontrato, ci abbiamo parlato e ci siamo fatti la nostra idea. Lui però, almeno per ora, non ha acconsentito alla pubblicazione di un’intervista, perché preferisce aspettare i riscontri della Procura.
O forse perché, nelle ultime settimane, la sua fiducia nei confronti dei giornalisti è in crollo verticale: “Un giornalista, televisivo o di carta stampata – afferma – scrive un’inesattezza e la maggior parte degli altri giornalisti riprende quell’inesattezza senza verificarne la veridicità, senza controllarne le fonti. Tutto questo si è verificato costantemente nei miei confronti, un male endemico e grave della stampa italiana”.
Ma Fassoni Accetti non vuole tornare nell’ombra, vuole che le sue parole vengano prese in considerazione. Ciò che lo spinge non è il desiderio di far luce sul caso Orlandi, lo ribadisce più volte, ma l’esigenza di far chiarezza sulla morte di Josè Garramon, un bambino travolto dal furgoncino di Fassoni Accetti la sera del 20 dicembre 1983, in una pineta di Castel Porziano. Per questo Accetti è stato condannato per omicidio colposo, ma il suo dubbio, in tutti questi anni, è che la scelta di quel bambino e il farlo finire sotto le sue ruote siano parte di un piano ben determinato. Affinché i riflettori si accendessero su di lui, Fassoni Accetti ha quindi tirato fuori il flauto della Orlandi, di cui sarebbe stato uno dei sequestratori. Una sorta di calamita mediatica, in buona sostanza. Ma le sue reali intenzioni sarebbero state travisate, in primis dalla trasmissione tv “Chi l’ha visto?”, ed è per questo che ha deciso di aprire un blog, marcofassoniaccetti.wordpress.com, nel quale ha messo per iscritto la sua verità, o almeno parte di essa. Andiamo dunque a leggere alcuni dei passaggi più interessanti.
PERCHÉ MARCO FASSONI ACCETTI HA DECISO DI PARLARE?
Quando inizialmente mi recai in Procura il 27 marzo 2013 dichiarai che mi presentavo principalmente per chiarire il fatto dell’investimento occorsomi nella pineta di Castel Porziano. Avevo patito all’epoca ingiuste ed abominevoli accuse e la conseguente assoluzione non mi aveva affatto acquietato e volevo chiudere moralmente quel caso, che all’epoca non potevo delucidare pienamente in quanto avrei dovuto motivare la mia presenza in quell’area. Ed ora, per farlo, dovevo necessariamente mettere il suddetto fatto in rapporto alle scomparse Orlandi – Gregori, rivelarne la consustanzialità. Auspicavo, attraverso un appello rivolto a certi ecclesiastici ormai in pensione, il loro presentarsi e contribuire con la testimonianza, coscienti che non si trattò di fatti ferali. Era l’appropriato momento storico, con l’elezione di un Pontefice non curiale, per sperare che in certi contesti venissero meno certe difese. Tutto questo risulta essere nel primo verbale firmato presso il giudice G. Capaldo. In seguito, per dar vigore all’appello, necessitavo d’un momento mediatico quale il ritrovamento del flauto, ed alla redazione della trasmissione di Rai 3 spiegai minuziosamente quanto raccontato in Procura e sopra esposto.
CHE COSA NON TORNA NELLA MORTE DI JOSÈ GARRAMON?
1-Josè Garramòn era figlio di un “diplomatico” della Fao. Diplomatico come nella promessa fatta a Mehemet Alì Agca di liberarlo con il sequestro di un diplomatico.
2-Garramòn era uruguyano, nazione feudo dell’avvocato Umberto Ortolani, i cui uomini erano la parte a noi opposta (l’avvocato aveva in Grottaferrata una villa. A futura spiegazione)
3-Abitava in viale dell’Aeronautica all’Eur, nei pressi dell’abitazione del signor Enrico de Pedis.
4-Josè Garramòn frequentava il mio stesso collegio St. George School, sito sulla via Cassia.
5-L’incidente s’è verificato vicino alla villa del giudice Santiapichi, presidente del primo processo ad Agca per l’attentato al Papa ed in predicato per essere il presidente della Corte d’Assise del secondo processo per l’attentato al Pontefice.
6-Esattamente un mese prima, alla fine di novembre (e questo è agli atti) io ed una ragazza, mia coetanea e collaboratrice, fermammo in corso Vittorio Emanuele un dodicenne che avremmo dovuto coinvolgere in una sua presunta testimonianza contro un membro della curia. La stessa età di Josè Garramòn.
7-In quella medesima pineta, precedentemente si erano verificati degli episodi che al momento non posso rivelare in quanto coperti da riserbo istruttorio (episodi che la stessa Sabrina Minardi rievoca pur trasfigurandoli).
PERCHÉ MARCO FASSONI ACCETTI ALLA FINE DEGLI ANNI ’90 SI FA VEDERE IN TV E NEGLI STATI UNITI TRAVESTITO DA ROBERTO BENIGNI?
Nel 1998 e 1999 ricevetti minacce telefoniche di uno sconosciuto che pretendeva la restituzione di materiale fotografico che a suo dire lo avrebbe ritratto durante determinate azioni negli anni precedenti, e che sempre a suo dire io avrei seppellito nel 1986 in una certa località. Località nella quale veramente mi ero recato con uno dei due idealisti turchi, presenti nel processo per l’attentato al Papa. Credetti di riconoscere in quella voce telefonica una persona vicina agli ambienti di Monsignor Bruno della diocesi di New York. Era l’anno 1999 in cui il regista Roberto Benigni aveva vinto l’Oscar ed io in una di queste telefonate di minaccia risposi al telefonista di aver compreso la sua identità e dicendogli che mi sarei presentato nella trasmissione Rai “Domenica In”, dove presentandomi come sosia di Benigni mi sarei attribuito il suo nome, il nome di colui che mi stava minacciando, ma che in verità non conoscevo. Simulavo. Utilizzai invece il nome Alì (Agca, che spara) Estermann (il comandante delle Guardie Svizzere, che muore). La trasmissione di Rai 3 omise di riportare questa mia chiarificazione riguardo la partecipazione a Domenica In, e sul fatto che io mi appellai come Alì Estermann, commentandolo dicendo “costui ha delle ossessioni riguardo i fatti di cronaca clericale”. Dopodiché mi recai in New York dove cercai di far pressioni nell’ ambiente della suddetta diocesi e presso alcune conoscenze di Mons. Cheli, spacciandomi direttamente per l’attore in questione, affinché l’interesse della stampa locale ed italiana avrebbe ancor più accentuato le stesse pressioni. Non sono mai stato un “sosia” di Benigni, era un travestimento. Una iperbole come anche chiedere la liberazione di Agca in cambio della Orlandi, il fermare la stessa davanti al Senato, l’aver usato Mario Appignani – alias Cavallo Pazzo, e le sovrastrutture “gotiche” inserite nei codici e nei comunicati. Per comprendere quest’uso inconsueto e spregiudicato di creare tali coperture bisognerebbe, credo, superare la limitatezza di un certo provincialismo che caratterizza noi italiani.
Adoperando non solo l’iconografia, ma anche l’iconologia, la scienza che studia l’interpretazione dei segni e del loro inserimento in un contesto. Vi furono comunque, per necessità d’azione, anche travestimenti come da sacerdote, agente di Pubblica Sicurezza ed altro.
CHI È DAVVERO MARCO FASSONI ACCETTI?
Non ho mai dichiarato di appartenere ad un qualunque servizio di Stato. Eravamo pochi laici che aiutavano pochi ecclesiastici.
Non è uno dei Servizi, bene. Ma la domanda resta: chi è davvero Marco Fassoni Accetti? In che veste e per chi ha agito? Chi sono stati i suoi complici? E se la storia, invece, fosse tutt’altra?
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