di Fabio Sanvitale direzione@calasandra.it
16 maggio 2013
Non c’è scelta: per sapere quanto è attendibile Marco Fassoni Accetti sul caso Orlandi, bisognerà attendere, oltre la perizia sul flauto, anche i risultati delle perizie foniche che compareranno la sua voce con quella dei telefonisti del sequestro. In quel drammatico 1983 furono tre: Pierluigi, Mario e l’Americano. Accetti dice di essere stato quest’ultimo. Vero o falso? Difficile dirlo così, ascoltando le voci di ieri e quella di oggi, a orecchio, senza un perito che compari i timbri, le pause, le frequenze.
Ad un primo ascolto si può dire che l’Americano aveva un’inflessione straniera e il nuovo teste no: ma potrebbe anche essere stata un’inflessione recitata. E ci sarebbe da comparare anche la telefonata anonima giunta due anni fa a Chi l’ha visto, in cui una voce, sembra davvero molto somigliante a quella di Accetti, dà indicazioni. Ma ammettiamo che la voce di tutte queste telefonate, di tutti questi messaggi sia la sua. Continuiamo a chiederci: a chi fa comodo che lui venga allo scoperto?
L’uomo appare molto sicuro di sé, di quel che dice: ha un alto concetto di sé, una forte autostima. Afferma di aver fatto parte di un gruppo di controspionaggio e di aver organizzato il sequestro. Ma possiamo credergli? La sua figura morale non appare certo quella del professionista dei Servizi. Chi lavora in questo ambiente ci arriva dopo esperienze nelle forze dell’ordine, nell’esercito ed è invisibile, è cauto, è uno qualunque. Accetti non ha nessuna di queste caratteristiche. Piuttosto, si muoveva, in quel 1983, su un fondale opaco. Fermava ragazzine per strada per fotografarle (e Dio solo sa se un fotografo professionista lo farebbe mai), organizzava feste con loro, faceva il sosia di Benigni in tv. Difficile, molto difficile inserirlo in un contesto simile, no?
E non è credibile quando dice di essere venuto a galla per fare sì che chi partecipò con lui al sequestro Orlandi si faccia vivo. Fateci il piacere: viviamo nel 2013 e questi intenti buonisti non sono verosimili. Innanzitutto perché la sua storia non è quella di un uomo che contribuisce alla verità. Il 20 dicembre di quello stesso 1983, infatti, Accetti investì col suo furgone un bambino di 12 anni, Josè Garramon, in viale di Castel Porziano, fuori Roma. Non c’erano segni di frenata. Raccontò balle sul come aveva fatto a finire lì, sul perché ci stava andando. Josè abitava a 20 km dal luogo in cui è stato ucciso e la sentenza del processo che ne è seguito non è riuscita a stabilire come ci fosse arrivato. Questo lo possiamo dire, visto che, per la morte del piccolo Josè, Accetti è stato condannato per omicidio colposo e omissione di soccorso. Ma neanche oggi sembra pentito. Anzi, il suo primo interesse resta, oggi, usare la morte di Josè: siccome quella sera lavoravo come spia, ha detto, e con me c’era una persona che non poteva essere coinvolta nell’incidente, dovetti scappare per forza. Un modo per accreditarsi come una specie di agente segreto in quello stesso 1983. Tutto molto bello, ma non è provato da nulla: ed in ogni caso resta l’omicidio del piccolo Josè. E poi c’è un altro motivo: che Fassoni Accetti i suoi calcoli se li è fatti. Sa che, dopo tutto questo tempo, anche confessando di aver organizzato il sequestro non rischia nulla: è tutto prescritto. Può dire quello che vuole. Lo sa lui, lo sanno i giudici.
Non sarà facile stabilire, comunque, se il flauto è davvero quello che aveva con sé Emanuela Orlandi quando è svanita nel nulla. Dopo 30 anni e nelle condizioni in cui è stato conservato, i batteri potrebbero aver distrutto le tracce di dna. E se invece le perizie dovessero dire che la voce dell’Americano è la sua? Vorrebbe dire che lui è realmente coinvolto nel sequestro, certo, ma non vorrebbe automaticamente dire che tutto quello che sta dicendo è vero. Lo scenario del sequestro Orlandi – senza servizi di mezzo – potrebbe essere allora diverso. Potrebbe essere buona la pista sessuale, ad esempio. Pista in cui è francamente più credibile il nuovo teste.
Intanto, sono già 152.000 le adesioni alla petizione che Pietro Orlandi (su www.emanuelaorlandi.it) rivolge a Papa Francesco per chiedere verità e giustizia per sua sorella Emanuela.
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