di Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani direzione@calasandra.it
2 maggio 2013
Roma, via Veneto. Un palazzo scosso da un grido, la gente che si affaccia sui pianerottoli, la portiera che sale le scale per andare a vedere ed incontra un uomo vestito di blu. L’uomo, molto tranquillamente, dice che non sa cosa possa essere stato, dice solo che si tratta di “una donna che grida”. Ancora pochi passi e la portiera trova una ragazza in un cappotto verde, con delle mani bellissime. Si chiama Christa Wanninger, è tedesca, ha 24 anni, è in fin di vita. È stata trafitta da sette coltellate. Morirà poco dopo, mentre altre sei persone vedranno allontanarsi l’assassino senza sapere che è lui, che è l’uomo in blu.
Comincia così, il 2 maggio 1963, uno dei più straordinari casi della nera italiana. Straordinario, sia per l’intreccio ed i colpi di scena che seguiranno, che per i tempi: perché la giustizia italiana impiegherà ben 25 anni per chiuderlo. L’abbiamo raccontato nel nostro libro (“Morte a Via Veneto”, Sovera, 2012) ma lo ripercorriamo oggi, che il caso Wanninger compie cinquant’anni.
Christa era arrivata in via Veneto inseguendo il mito della Dolce Vita e il sogno di trovare un marito italiano che la mantenesse. Era finita, invece, a dormire dietro il paravento della stanza di passaggio d’una pensioncina; e quel giorno andava a trovare una sua amica nella speranza di riuscire a dormire. Le indagini si presentarono subito difficili: tutti avevano visto andar via l’assassino, ma nessuno sapeva dove. Venne fatto un identikit, ma nessuno si fece avanti. Un identikit semplice, fatto di poche linee, ma che dava una sensazione, potremmo dire un’ “emozione”: non era come molti identikit elaborati al giorno d’oggi al computer, che sembrano tutti uguali, questo forniva la vera essenza dell’ “uomo in blu”.
Mentre il fidanzato di Christa aveva un alibi solido, c’era, invece, una figura sconcertante: ed era proprio l’amica da cui la Wanninger stava andando. Si chiamava Gerda Hodapp, anche lei cercava un buon marito a Roma, era decisamente più spregiudicata e aveva fatto una cosa incredibile: non solo non aveva aperto all’amica che gridava a morte di fronte alla sua porta, ma nemmeno dopo, alla polizia. O meglio, lo aveva fatto solo dopo la bellezza di venti minuti, in vestaglia e con l’aria assonnata. “Dormivo”, fu tutto quello che disse. Gerda sembrava nascondere qualcosa.
Ma cosa era successo? Abbiamo visto che Christa era stata colpita da sette coltellate. L’aggressione era iniziata appena uscita dall’ascensore: ma dov’era l’assassino? Dove la stava aspettando? La vittima non era casuale, nessun aggressore si metterebbe ad aspettare casualmente – in un anonimo quarto piano di un palazzo – una eventuale vittima. L’azione omicida non poteva neppure essere preordinata, visto che nessuno sapeva che Christa sarebbe andata lì in quell’orario. L’unica spiegazione plausibile è che l’avesse seguita.
Ci rechiamo in via Sicilia, dove alloggiava la Wanninger. Immaginiamo la scena. L’ “uomo in blu” che passeggia sotto la pensioncina. Sa che lei uscirà verso l’ora di pranzo, non è la prima volta che la segue o che l’aspetta anche per un’ ora, davanti quel portone, andando avanti e dietro. Si sente il portone che si apre ed eccola: bellissima nel suo cappotto verde. Lui inizia a seguirla. Si sta dirigendo di nuovo dalla sua amica, come ha fatto varie volte da quando la osserva. Ma questa volta lei non va subito: si ferma un attimo in stireria e in quella frazione di momento l’ “uomo in blu” decide di anticiparla, le passa davanti ed entra nel portone. Sale le scale. Dall’alto la vede arrivare e premere il tasto dell’ascensore, allora inizia a salire più velocemente per battere sul tempo quell’ascensore che lo divide dalla sua preda. Arriva al quarto piano e si ripara, l’ascensore si apre, lui si avvicina. Lei lo percepisce e si gira di scatto. Lui affonda il coltello.
Torniamo a Gerda, l’arrestano, ma niente: non parla. Nemmeno quando la polizia riesce a provare che era sveglia di sicuro. Poi il tempo passa, il caso Wanninger finisce nel dimenticatoio: quando, un anno dopo, un uomo telefona ad un giornale e offre rivelazioni in cambio di soldi. Il cronista che risponde chiama i carabinieri e l’uomo viene arrestato. Si chiama Guido Pierri, ha un coltello con sé, racconta molte bugie, ha un diario in cui descrive il suo vizio di pedinare le donne, è spiccicato all’identikit. Nega di sapere davvero qualcosa, per lui era solo un modo per far soldi. Ma al giudice sembra solo un mezzo matto, un mitomane: e lo rilascia. Passa altro tempo, qualche anno. Siamo ai primi degli anni Settanta. C’è un maresciallo dei carabinieri che è andato in pensione con la ferma idea di essere stato sottoutilizzato nell’Arma. Si chiama Renzo Mambrini, scrive un romanzo sul caso ed accusa Pierri apertamente. Il caso viene riaperto, stavolta si scava di più, ma c’è l’emergenza del terrorismo, in fondo è una storia vecchia di anni, no? Dopo altro tempo arrestano Pierri, lo periziano: incapace di intendere e di volere.
Lo periziano, in realtà, per la seconda volta. Perché nel 1963 Pierri era già stato affidato allo psichiatra Fontanesi, ma dopo tre sedute aveva deciso di non andarci più. Lo psichiatra ed il giudice che gli aveva commissionato la perizia, indaffaratissimi, si erano dimenticati di lui…. Incredibile, ma era successo! Quando ci fu la seconda perizia andarono a chiedere notizie della prima a Fontanesi: e lui, candidamente, rispose: “non so…dovrei chiedere a mia moglie, è lei che mette a posto le cose…”.
Nel frattempo è successo di tutto: qualcuno ha parlato dell’ombra dei servizi (e te pareva), Gerda è sparita, i testimoni del 1963 non si ritrovano, ma soprattutto ci sono i diari di Pierri, che sono terrificanti. Sono il racconto d’un ossessione, del desiderio di morte come prova della volontà, come esame da superare per essere davvero un uomo. Pierri è colpevole, ma non può andare in carcere: non è responsabile delle sue azioni. In una Roma lontana anni luce dai riflettori della Dolce Vita, dove uscire la sera fa paura, in un’Italia piena di attentati, ferimenti, stragi, la Cassazione arriva solo nel 1988, quando la colpevolezza di Pierri viene dunque scritta per l’ultima volta. Nel frattempo è tornato a vivere in Toscana, si è sposato, dipinge: quadri davvero inquietanti, aggrovigliate forme di corpi, serpenti, pugnali, insetti. E finalmente, 25 anni dopo, Christa Wanninger può riposare in pace.