di Valentina Magrin direzione@calasandra.it
PIETRO MASO – Pietro Maso nel 1991 era un aitante ragazzo di 19 anni, amante della bella vita e del lusso, ma “allergico” al lavoro. Nel periodo precedente all’omicidio aveva trovato un impiego come commesso in un supermercato, presto però si era stancato e si era licenziato. Nello stesso periodo il ragazzo aveva anche fatto una richiesta al comune dove risiedeva, Montecchia di Crosara (Verona), per allestire una discoteca in uno spazio aperto. Pietro era stato espulso dal seminario dopo averlo frequentato per un anno ed era stato esonerato dal servizio militare per motivi psicologici. Nei due mesi precedenti l’omicidio Pietro era cambiato molto ed era diventato insofferente verso i familiari. Aveva anche minacciato il suicidio perché si vergognava di essersi fatto trovare in tasca due milioni di lire appartenenti alla madre.
L’OMICIDIO
17 aprile 1991: Montecchia di Crosara (Verona) – La notte tra il 17 e il 18 aprile 1991 Pietro Maso, 20 anni, rientra a casa dopo una serata in discoteca e trova i corpi senza vita dei suoi genitori: Antonio Maso, 52 anni, e Maria Rosa Tessari, 48 anni. I corpi sono riversi accanto alla scala interna dell’abitazione. I coniugi sono stati uccisi con numerosi colpi alla testa inferti con oggetti contundenti. Erano appena rientrati a casa dopo aver partecipato a una funzione religiosa, intorno a mezzanotte. Il primo a essere aggredito era stato Antonio, che aveva rantolato per alcuni minuti e poi era stato soffocato con una coperta premuta sul volto. Poi era stata la volta di Maria Rosa, che aveva gridato e probabilmente aveva riconosciuto il suo assassino.
Scoperto il delitto, Pietro si mette a urlare e in suo aiuto accorre un vicino di casa amico di famiglia, Antonio Meridiano. Sembra si tratti di una rapina, ma le vittime sono state aggredite nell’ingresso della loro villetta: proprio questo particolare fa pensare che si sia trattato di un agguato premeditato, ipotesi che cozza con quella della rapina.
LE INDAGINI E L’ARRESTO
19 aprile 1991: I carabinieri scoprono degli ammanchi di denaro sul conto dei coniugi Maso. Non solo: un assegno di 25 milioni della signora Rosa, in realtà con la firma contraffatta, era stato ritirato da un amico di Pietro Maso, Giorgio Carbognin, che con quei soldi doveva pagarsi una macchina Lancia Delta integrale. In realtà quei soldi erano stati sperperati come al solito in feste e vari eccessi e il rischio era che la madre di Pietro si accorgesse del misfatto. Che fare allora? Uccidere sembrava l’unica soluzione…
La sera del 19 aprile 1991 Pietro Maso viene interrogato per la seconda volta e poco dopo confessa il delitto e fa il nome dei suoi 3 complici.
20 aprile 1991: vengono arrestati Pietro Maso e tre suoi amici: Giorgio Carbognin (commesso) e Paolo Cavazza (disoccupato), entrambi 19 anni, e il diciassettenne Damiano Burato, tutti di Montecchia di Crosara. Vengono accusati di concorso in omicidio volontario. Hanno confessato. Hanno massacrato i coniugi Maso colpendoli con un bloccasterzo, una mazza di ferro e due pentole. In particolare, è proprio Pietro a finire sua madre. Dopo l’omicidio gli amici/assassini, tranne Cavazza, se ne vanno in discoteca ma restano fuori dal locale perché non hanno l’invito.
Il movente sarebbero i dissapori tra i coniugi e il figlio Pietro dovuti allo stile di vita dispendioso del ragazzo e il fatto che Pietro voleva impossessarsi dei beni dei genitori per continuare a vivere nel lusso senza dover lavorare. Pietro voleva uccidere anche le sue sorelle maggiori Nadia (26 anni) e Laura (24 anni) e suo cognato, per non dover dividere l’eredità, che secondo i suoi calcoli ammontava a circa un miliardo e mezzo di lire. Pietro, così certo del suo piano, con i soldi che avrebbe ricavato aveva progettato di allestire una discoteca all’aperto.
In un primo tempo il piano era stato quello di far saltare in aria la casa, che era assicurata, ma al momento stabilito il piano era saltato perché mancavano le sorelle di Pietro, che dovevano anch’esse essere eliminate. Pietro e i suoi amici avevano anche ipotizzato di uccidere la signora Maria Rosa in auto con uno schiacciacarne, che però Carbognin all’ultimo momento non aveva avuto il coraggio di usare. Tutti questi progetti venivano fatti al bar, tra una chiacchiera e l’altra.
Nelle fasi omicidiarie Pietro e i suoi complici si sono coperti il volto con delle maschere di carnevale. Nel luogo del delitto viene trovata una maschera da ciclope, mentre a casa di uno dei complici una maschera da diavolo.
22 aprile 1991: viene interrogato un altro amico minorenne di Pietro. Anche lui era a conoscenza del piano criminale ma all’ultimo momento si era dissociato, pensando che lo facessero anche gli altri.
IL PROCESSO
7 settembre 1991: Secondo il perito Vittorino Andreoli, consulente del sostituto procuratore, Pietro Maso, Giorgio Carbognin e Paolo Cavazza sono capaci di intendere e di volere. Andreoli scrive che Pietro Maso è affetto da “disturbo narcisistico della personalità, di grado lieve medio, con alterazioni del giudizio etico sostenute dall’ambiente familiare e sociale in cui ha vissuto”. Per lui “i genitori esistevano, non come principio di autorità, ma come oggetto, un piccolo salvadanaio da cui poteva trarre quanto gli è servito fino ad un certo punto, oltre al quale, per avere quanto voleva, bisognava romperlo”. E ancora: “Maso è da considerare, per disturbo narcisistico, capace di intendere e di volere nell’ordinario, ma nel fatto risulta scemata, senza tuttavia escluderla, la sola capacità di volere”. Carbognin, invece, è affetto da un “disturbo dipendente di personalità, di grado lieve, fondato sul legame che egli ha stabilito con Pietro Maso”; comunque, “l’entità del disturbo non è tale da scemare grandemente la sua responsabilità”. Cavazza, infine, “non solo è esente da patologia psichiatrica, non solo non ha un legame con Maso e Carbognin, ma ha percepito la gravità del fatto e ha voluto parteciparlo con minore coinvolgimento possibile”.
Andreoli spende anche alcune parole sulla società dell’epoca: “Una società improntata all’apparenza, incapace di risolvere nuovi problemi, che tende solo a negare o nascondere”; “una società che è stata riempita di denaro, che è diventato il vero Dio di questi luoghi e dove la scuola è diventata una perdita di tempo”.
13 ottobre 1991: il sostituto procuratore della Repubblica di Verona Mario Giulio Schinaia chiede il rinvio a giudizio, con l’accusa di duplice omicidio aggravato, nei confronti di Pietro Maso, Giorgio Carbognin e Paolo Cavazza. Il Gip respinge la richiesta di rito abbreviato fatta dai difensori, in quanto una recente sentenza della Corte Costituzionale nega il rito abbreviato per i reati che prevedono la pena dell’ergastolo.
18 febbraio 1992: inizia il processo. Nel frattempo Pietro Maso è diventato un personaggio molto celebre e riceve lettere da ammiratrici. Maso e i suoi amici si presentano al processo un doppiopetto, cravatta e papillon. Le due sorelle di Pietro Maso non si costituiscono parte civile ma intentano una causa contro il fratello per farlo dichiarare indegno ed escluderlo dall’eredità.
Nel corso del processo Maso confessa di aver fatto abitualmente uso di cocaina ed extasy e racconta altri particolari raccapriccianti del suo piano: dopo l’uccisione dei genitori, oltre le sorelle e il cognato avrebbe voluto uccidere anche due dei suoi complici, Paolo Cavazza e Damiano Burato, ma l’altro complice, Carbognin, non era d’accordo. Cavazza nel corso del processo prende le distanze e dice di essere stato costretto a partecipare all’omicidio, perché altrimenti gli sarebbe successo qualcosa di brutto.
29 febbraio 1992: Pietro Maso viene condannato a 30 anni di reclusione, Giorgio Carbognin e Paolo Cavazza a 26 anni. La condanna viene confermata in Appello il 29 aprile 1993. Ai tre ragazzi viene riconosciuto un vizio parziale di mente, riscontrato nella perizia psichiatrica voluta dalla Corte d’Assise d’Appello di Venezia (e già stabilita anche in primo grado), eseguita dai professori Giacomo Canepa, Tullio Bandini e Umberto Gatti.
Nelle motivazioni dell’Appello si legge che le “patologie ad incastro” degli imputati (personalità borderline e narcisismo per Maso, personalità dipendente per Carbognin e gregarismo ed immaturità per Cavazza) “hanno consentito, come talora avviene in natura (in fisica nucleare per i ‘vettorini’) una imprevedibile ma non per questo meno realizzabile miscela di forze sinergiche ed esplosive”. C’è stato un “vicendevole e reciproco rinforzo delle patologie dei singoli nella interazione criminosa, con il risultato finale di un circolo vizioso di reazioni e controreazioni dove ognuno trovava alimento nella patologia dell’altro, con la conseguenza di un progressivo e collettivo allontanamento dalla realtà.” Citando una massima latina, “senatores boni viri; senatus mala bestia” (i senatori sono uomini buoni, il senato una bestia malvagia) i giudici ritengono che “gli stati emotivi e passionali, violentemente espressi dal gruppo”, sono “degenerati, sommati alle singole patologie dei correi, in un vero e proprio squilibrio mentale che ha parzialmente oscurato l’intendere, semi-paralizzata la coscienza, disturbata la volontà, con la notevole, finale liberazione di gran parte dei vincoli e dei legami dei freni inibitori”.
Un gruppo che, contrariamente a quanto avviene generalmente, aveva un “debolissimo capo, un candidato ad un precocissimo fallimento che solo la modestissima statura culturale e l’immaturità globale dei correi, accompagnate dalle loro patologie, poteva trasformare, per le circostanze, in un leader trainante e trainato”. È proprio questa sudditanza psicologica nei confronti di Maso a fare da attenuante per Carbognin e Cavazza. La sentenza viene confermata anche in Cassazione nel gennaio 1994.
Metà marzo 1992: le sorelle di Pietro Maso lo vanno a trovare in carcere.
18 giugno 1992: Pietro Maso si dichiara indegno a ricevere l’eredità dei genitori.
1 ottobre 1992: Damiano Burato viene condannato in primo grado dal tribunale dei minorenni di Venezia a 23 anni di carcere. Nel 1993 la sentenza viene annullata a causa dell’omessa notifica di un’udienza a uno dei due avvocati difensori del giovane. Il 9 febbraio 1994 Burato viene condannato a 13 anni di reclusione. I giudici gli riconoscono una serie di attenuanti ritenute prevalenti sulle aggravanti: il vizio parziale di mente, la minore età all’epoca del fatto, l’essere stato indotto al delitto da Maso e le attenuanti generiche.
14 ottobre 2008: Concessa la semi-libertà a Pietro Maso.
20 aprile 2011: Pietro Maso viene denunciato da un uomo che aveva con lui affari economici per minacce di morte (gli avrebbe detto “Ti ammazzo”) e, nonostante Maso neghi la circostanza, gli viene revocata la semi-libertà. La decisione è anche dovuta a una contravvenzione per un sorpasso in doppia linea continua (un carcerato come lui deve essere irreprensibile). Nel luglio 2011 gli viene di nuovo concessa la semi-libertà.
15 aprile 2013: Pietro Maso è a tutti gli effetti un uomo libero.
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