di Fabio Sanvitale direzione@calasandra.it
9 aprile 2013
Sessant’anni fa l’Italia scopriva lo scandalo politico: erano i giorni dell’affare Montesi. E’ stata la madre di tutti gli scandali italiani, eppure tutto era nato così, dal nulla, con poche righe in cronaca di Roma. E’ l’aprile del 1953, il 9 aprile.
Una ragazza esce di casa dal palazzo di via Tagliamento angolo via Chiana dove abita. Esce dopo che mamma e sorella se ne sono andate al cinematografo –come si diceva allora- ma soprattutto dopo aver detto che non ha voglia di uscire. E sparisce nel nulla. Il padre torna, gli dicono che Wilma non c’è: lui va a cercarla negli ospedali, sul lungotevere, pensando ad un suicidio. E perché mai?
Per due giorni di Montesi Wilma non si sa nulla, finchè il mare non decide di restituirla sulla spiaggia di Torvajanica, a diverse decine di chilometri da Roma e, soprattutto, da casa sua. La trovano alle prime ore del giorno e subito si pensa all’incidente. Annegamento, dice l’autopsia. D’altronde, la madre, Maria Petti, è chiara: l’unica depositaria dei segreti di Wilma e della sorella è lei, segreti non ce ne sono e tanti saluti. La tesi ufficiale è: Wilma ha preso il treno per Ostia, Wilma è andata a farsi un pediluvio per curare un fastidioso eczema ad un tallone, ha avuto un malore, è annegata in pochi centimetri d’acqua. Va bene.
Seppelliscono Wilma, “angelo rapito dal mare”, e finisce là. Si fa per dire. Passa un mesetto ed il 5 maggio un settimanale satirico, “Il merlo giallo”, pubblica una vignetta. C’è un piccione viaggiatore che porta un reggicalze. Non si capisce nulla, ma quando qualcuno capisce sobbalza. E’ l’inizio vero dell’affare Montesi, perché la vignetta ha un doppio riferimento: all’onorevole Piccioni, Attilio Piccioni, Ministro degli Esteri e numero due della DC ed al reggicalze che – si scopre – mancava all’annegata insieme alla gonna, alle calze ed alle scarpe. Ora, sarete d’accordo con me che non si va al mare a curarsi l’eczema col reggicalze, specialmente se poi in pieno giorno devi sganciarlo per poter curare il famoso tallone.
Le indagini non ripartono subito. Ad ottobre è un’altra rivista, “Attualità”, che torna sulla vicenda ed a più colonne. L’attacco alle indagini è frontale: si parla di coperture politiche. Il direttore, Silvano Muto, viene querelato per diffamazione. Sembra che finisca lì ma al processo, nel gennaio 1954 (perdonate la battuta), Muto parla. Porta una teste: Anna Maria Moneta Caglio, a seconda dei casi detta “il cigno” per via del collo lunghissimo o “Miss Querela 56” per via del numero di denuncie che prenderà. La ragazza testimonia di sapere cosa c’è dietro. Una cosa enorme: Wilma ha partecipato a una festa a base di sesso e droga nella tenuta di Capocotta, gestita dal marchese Ugo Montagna, suo ex amante. Qui è morta: e sulla spiaggia è stata abbandonata per evitare uno scandalo ai potenti personaggi presenti al festino. Le correnti marine hanno fatto il resto. Lo sa perché Montagna gliel’ha detto.
La tesi del pediluvio non regge, sicuro. A bene vedere, non regge nulla. Ma le prove? Intanto il capo della Polizia si dimette e dai banchi della sinistra, in Parlamento, quelli della Dc vengono etichettati come “capocottari”. Il processo Muto viene sospeso ed il caso Montesi riaperto.
Tutto viene messo in mano ad un giudice mastodontico nelle forme e nell’energia: Raffaello Sepe, che si abbatte sulle indagini come un ciclone sui Tropici. Se Wilma è uscita dal portone di via Tagliamento alle 17 passate, a che ora è arrivata a Ostia col treno? E poi, un pediluvio col buio? Fa ridere. Sepe si muove come un giustiziere che non guarda in faccia a nessuno, l’Italia scopre il lato oscuro della politica. Nel tritacarne finisce Attilio Piccioni che deve dimettersi e soprattutto il figlio, Piero Piccioni, in arte Piero Morgan, un signor musicista che sarà l’autore delle colonne sonore di tanti film di Alberto Sordi. Si scopre che Montagna non è un marchese ma un pregiudicato, il Questore di Roma Polito finisce sotto processo per aver coperto tutto, Piccioni viene arrestato, Montagna si costituisce. Il processo devono farlo a Venezia per via del clima arroventato che c’è a Roma. È il 1957. Si presenta Alida Valli, la grande Alida Valli, una delle più importanti attrici italiane, e testimonia che quel giorno Piccioni era con lei. Il processo è chiaro: non c’è una prova. Vengono tutti assolti e addirittura il Pubblico Ministero rinuncia a chiedere appello. Si sgonfia tutto, una clamorosa bolla di sapone che ha fatto vendere milioni di giornali e periodici. Ma, un attimo: allora com’è morta Wilma Montesi?
La sensazione è che proprio la famiglia non l’avesse raccontata giusta, non avesse detto tutto.
I Montesi si posero come famiglia-modello della media borghesia italiana. Insistevano sulla «santità» di Wilma, sulle abitudini che imperavano nelle quattro stanze del loro modesto appartamento, sottolineando il trantran di una vita quotidiana fatta di piccole cose e soprattutto di normalità a quintali. «Santa», «il gioiello della mia vita», «una rosa sotto il naso»: sono tutte espressioni usate da Maria Petti per descrivere la figlia. E allora ripartiamo da lì. Perché in verità, accertò Sepe, le liti tra madre e figlia era frequenti, altro che. Ida Montesi, sorella del padre di Wilma, quando si recò da loro il giorno dopo la scomparsa trovò la Petti che gridava tra i singhiozzi: «Torna, torna, ti perdono anche se tu dovessi tornare con due gemelli e dieci amanti!»; una frase che la madre ha preferito non spiegare. Scrive Sepe che «frequenti erano i litigi, anche violenti, fra la Petti e le figlie, le quali la chiamavano, in tali occasioni “sozzona e disgraziata”».
Insomma, chi era Wilma Montesi? Eccessivamente timida, non particolarmente intelligente, tutta casa e famiglia, una che non è mai uscita sola, dicono i familiari. E veniamo poi a sapere che sette anni prima aveva imparato ad andare in motoscooter con un ragazzo (che per l’epoca era una botta di modernità), che negli ultimi tempi la portiera la vedeva uscire spesso da sola (e questa era una botta di trasgressione). Il medico di una farmacia di via Sebazio arrivò a testimoniare che Wilma tornava a casa da sola anche a mezzanotte (e qui, nel 1958, eravamo nell’inconcepibile).
C’è lo zio Giuseppe, fratello del padre di Wilma, che proprio il 9 aprile si assenta dal posto di lavoro dicendo che deve andare ad Ostia, a far cosa non si sa. Ostia, da dove è passata Wilma. C’è, soprattutto, una ragazza molto più libera di quanto sembrasse, tanto da uscire da sola col reggicalze. Che forse voleva fare una vita più brillante e più libera di quella che il fidanzato poliziotto (a Potenza) le promettesse. Che forse ha conosciuto altri giri. Che, di sicuro, il 9 aprile del 1958 non uscì per andare al mare, a trenta chilometri da casa. E che la restituì morta.