di Fabio Sanvitale direzione@calasandra.it
16 marzo 2013
Quanti sanno che Diabolik deve il suo nome ad un vero assassino? Era il 1958, precisamente martedì 25 febbraio, quando a Torino “Stampa Sera” apriva a sei colonne sul caso “Diabolich” – scritto proprio così – un giallo incredibile, che ricorda quello di “Zodiac”, il serial killer su cui David Fincher ha girato quel meraviglioso film nel 2007. Ma per capire cos’era successo dobbiamo fare un passo indietro. E guardare quella cabina telefonica in una strada di Torino. Dentro c’è un’ombra, compone il numero di “Stampa Sera” e dice: “ho ucciso un uomo sulla via di Po”. Dove? Lei chi è? Gli chiedono. “Vicino al Po” risponde, chiudendo la comunicazione. Al giornale non gli danno peso, sarà il solito tipo strano. Viene ripescato un corpo nel fiume: è un pensionato. Sarà questo il morto, pensano i giornalisti.
Ma la mattina di qualche giorno dopo, e cioè del 25 febbraio, a “Stampa Sera” e al Commissariato di Borgo Po arriva una lettera cifrata. Non fu facile interpretarla (la vedete qui a lato). Ci siete riusciti? Mentre i giornalisti di “Stampa Sera” e i poliziotti cercavano di capirci qualcosa, alla Fiat volevano sapere che fine avesse fatto un loro operaio che da dieci giorni non andava in fabbrica. Un incaricato dell’azienda si faceva aprire la porta di un appartamento al pianoterra di via Fontanesi 20. E trovava Mario Giliberti, operaio alla Fiat appunto, 28 anni, in pigiama, sul letto, in mezzo al proverbiale mare di sangue. Quando i giornalisti arrivarono sul posto, la polizia li aveva preceduti. Fu solo più tardi che qualcuno, in redazione, riuscì a capire che la lettera conteneva un indirizzo: via Fontanesi 20. Non c’erano dubbi: l’aveva scritta l’assassino.
Brutta morte, aveva fatto Giliberti. Dopo una lunga agonia. Sotto i due cappotti che Diabolich gli aveva messo sopra, con in bocca un lembo del lenzuolo.
Vittima e assassino si conoscevano: c’erano due tazzine di caffè usate, in quella stanza. Ma perché era morto nel letto, in pigiama? Fatto sta che era stato ammazzato con diciotto colpi di pugnale. Poi l’assassino aveva inscenato un furto: qualche oggetto d’oro, due macchine fotografiche, due sveglie. Per terra, aveva lasciato una serie di foto di Giliberti cui aveva sforbiciato la faccia di qualcuno che era con lui. E se n’era andato, aspettando che il suo delitto venisse scoperto. Doveva trattarsi di un lettore di gialli, perché proprio quell’anno Garzanti vendeva in edicola una serie, “I romanzi della notte”: e in uno di questi libri c’era un racconto di Bill Skyline (al secolo Italo Fasano) intitolato “Uccidevano di notte”, il cui protagonista era l’assassino Diabolic (senza l’acca) che sfidava la polizia a trovarlo. Insomma, l’omicida s’era ispirato al libro. La finzione era diventata realtà rosso sangue.
E non solo s’era ispirato. Aveva il pericoloso gusto della provocazione e della sfida. Tanto che, sotto il testo che avete letto, aveva aggiunto: “Dato che parto mi piace informare. Il giornale legga la lettera e scoprirà il luogo con precisione. Caccia al cadavere”. Sconcertante…come il biglietto che Diabolich aveva lasciato nella stanza: “Riuscirete a trovare l’assassino?”. Poi aveva aspettato uno, due, tre, sei, otto, dieci giorni. Niente, nessuno scopriva il “suo” delitto. E allora aveva scritto a tutti. Che senso di protagonismo!
Torino si riempì di paura. I giornali andavano a ruba. Il racconto fu ristampato. Ma per capire cosa poteva essere successo, bisognava ripartire dalla scena del crimine, dalle strade del popolare quartiere torinese di Vanchiglia, dove era ed è via Fontanesi 20. Giliberti (nella foto qui accanto) era stato scoperto il 25 febbraio, ma era stato visto vivo per l’ultima volta il 14. Doveva essere morto –così raccontava il suo pigiama- nella notte di San Valentino, tra il 14 ed il 15 febbraio.
Usciamo dalla stanza del delitto e portiamoci sul corridoio del palazzo a fianco. Qui, alla luce delle fioche lampadine, proprio quella notte il barista Bruno Fassio, verso l’1 di notte, aveva sentito il suono di uno schiaffo, qualcosa di vetro che si rompeva, poi una voce femminile dire: “ahi, aiuto, aiuto, Valerio, Valerio”. Poi, silenzio. La faccenda era strana. Giliberti era bisessuale, il che avrebbe spiegato perché ad un certo punto aveva messo il pigiama: per andare a letto con l’assassino. Ecco, una lite tra omosessuali.
Ma a guardar bene in questa ricostruzione non tornava quasi nulla. Perché non c’è bisogno di mettersi il pigiama per fare sesso con qualcuno, anzi… Perché quel caffè, Giliberti, poteva averlo bevuto benissimo con qualcun altro, ore prima: e infatti li aveva fatti fare al bar nel secondo pomeriggio. Che però assassino e vittima si conoscessero non c’era dubbio: Giliberti gli aveva aperto in pigiama. E poi c’era quel gesto di coprirne il volto: che oggi sappiamo essere prova di rimorso, di conoscenza diretta tra vittima e assassino e che, nel 1958,non si sapeva ancora che volesse dire questo. E quello che aveva sentito Fassio? Ma forse aveva sentito la lite di un altro appartamento: d’altronde, non erano stati trovati frammenti di alcun genere, nella stanza. Piuttosto, di chi erano i visi sforbiciati nelle foto?
Nel portafogli di Giliberti venne trovata una foto con dedica alla vittima di un ragazzo, un tipo pallido e silenzioso che aveva fatto il militare con lui. Era forse l’unica sfuffita all’assassino. Il ragazzo si chiamava Aldo Cugini, era di Bergamo. Ecco, il fatto che assassino e vittima “avevano fatto il militare insieme”, come aveva scritto Diabolich, spinse la polizia a sospettarlo; e il 1° marzo fu fermato. Ma non c’erano vere prove che fosse stato a Torino per San Valentino. Neanche la calligrafia era uguale, somigliava. Si erano visti anche dopo il militare, ma Cugini negava di aver avuto una relazione con lui.
Nelle strade di Torino, comunque, c’era sempre il panico: perché Diabolich continuava a scrivere. Alcune lettere erano false, erano di emulatori; ma altre vennero riconosciute come originali. Alla gente però non importava nulla sapere che fosse falsa una lettera come questa: “Io, Diabolich, dimostrerò che voi della polizia siete dei buoni a nulla. Come? Compiendo una lunga serie di delitti perfetti. Per un anno il nome di Diabolich sarà sinonimo di terrore!”. Non importava: bastava per aver paura.
Eppure, fu proprio Diabolich a tranquillizzare tutti. Lo scrisse il 16 marzo: “il mio delitto non è un gioco da ripetersi”. E stavolta era proprio lui, dissero i periti, con quello stile così burocratico. Certo era che il delitto era premeditato. Troppo, anche. Perché il pugnale se l’era portato, non mancava nulla dalla stanza di Giliberti. Perché tanto grammaticalmente corrette erano state le lettere successive quanto vistosamente sbagliato il biglietto lasciato nella stanza del delitto, con quel “assino” messo lì apposta a far credere che si trattasse di un ignorante. Perché quelle foto erano state così ostentatamente tagliuzzate e buttate sul pavimento: quando, se davvero fossero state compromettenti, sarebbe bastato portarsele via. A meno che non fosse una mossa per portare la polizia su una falsa traccia…
Cugini restò dentro per la bellezza di 135 giorni, come si usava all’epoca. Quando uscì, il 14 luglio 1958, trovò la sua fidanzata Marisa e una folla di innocentisti ad attenderlo. Aldo e Marisa si sposarono due mesi dopo. Le indagini si chiusero con un nulla di fatto.
Quattro anni più tardi, nel 1962, le sorelle Giussani avrebbero scelto proprio “Diabolik” (stavolta col kappa) come nome per il loro geniale personaggio. Oscuro e amante della sfida, proprio come lo sconosciuto assassino di Torino.