di Fabio Sanvitale direzione@calasandra.it
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05 marzo 2013
La verità è davvero “figlia del tempo”, come diceva Leonardo Da Vinci? In Italia, nel paese delle coperture e dei segreti inconfessabili, sì. Prendete la Strage di Ustica, 27 giugno 1980. Un mese fa, trentatre anni dopo quella sera, la Cassazione ha messo un punto fermo: sì, è stato un missile, oppure una collisione in volo con un aereo militare. E non un cedimento strutturale (come sostenne subito l’Aeronautica) o una bomba (la seconda ipotesi preferita dalla nostra arma aerea): ma il risultato di una battaglia nei cieli, in cui fu coinvolto e abbattuto un aereo civile italiano che non c’entrava nulla. E’ una sentenza epocale, che tutti devono conoscere perché mette dei punti fermi – grossi come una casa – su come andarono le cose quel giorno di tanti, tanti anni fa. Tanto per dirla subito: la sentenza è della Cassazione civile e chiude definitivamente l’iter avviato dai parenti delle vittime della strage, che si erano rivolti al Tribunale di Palermo per ottenere giustizia, quanto meno sul piano dei risarcimenti. E l’avranno, perché il Ministero dei Trasporti e quello della Difesa – che con cattivo gusto si sono fortemente opposti fino all’ultimo – sono stati condannati a sborsare 100 milioni di euro per il cumulo di omissioni, negligenze e depistaggi tramite i quali non hanno impedito la strage quel giorno e l’hanno coperta dopo. Di tutto questo parliamo oggi con Daria Bonfietti, Presidente dell’ ”Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica”.
Quello che tutti pensavano, ora, è scritto nero su bianco in una sentenza della Suprema Corte: e non è poco. Vediamo allora in che modo il Tribunale di Palermo ha ricostruito gli avvenimenti che successero tra le 20 e le 21 di quel giorno, in cui nel cieli del Tirreno volava una tonnellata di aerei militari stranieri, tra i quali si nasconde quello che uccise 81 civili italiani. Aerei visti da tutti i nostri radar, che non erano uno: Marsala, Licola, Poggio Ballone, Grosseto, Poggio Renatico, Jacotenente, Potenza Picena… ma nessuno avvisò il volo IH870 del pericolo. “Un tentativo di avvisarlo poteva almeno esser fatto – dice la Bonfietti – non sappiamo se sarebbe servito, ma almeno poteva esser fatto”. Così l’aereo continuò la sua rotta, ignaro dello scenario in cui volava.
Il volo Itavia IH870 era decollato alle 20.08 dall’aeroporto di Bologna (in ritardo: sarebbe dovuto partire alle 18.30 e vedremo quanto questo ritardo si rivelò fatale per trovarsi al momento sbagliato nel posto sbagliato) ed era atteso alle 21.12 in quello di Palermo. Alle 20.56 IH870 comunicava di essere sull’aerovia Ambra 13 e passava sotto la supervisione di Palermo Controllo (cioè l’aeroporto di Punta Raisi), col quale comunicava senza problemi due minuti più tardi. In quel momento si trovava a 7620 metri di quota. Alle 21.04 Palermo però non riceveva più risposta dal volo Itavia. Si scoprirà dopo che alle 20.59.45’’ era arrivato l’ultimo segnale di vita dal volo IH870: l’ora della strage è quella, quindici secondi prima delle 21.
Sarebbe stato facile capire cosa era accaduto, se l’Aeronautica Militare avesse collaborato. Se avesse detto cosa aveva visto sui suoi radar. Quando, molti anni dopo, finalmente, la Nato darà risposta alle richieste del giudice Rosario Priore e del Governo, si scoprirà che alcuni degli aerei militari che volavano sul Tirreno quel 27 giugno risultavano sconosciuti: volavano cioè in modo tale da non essere riconosciuti. Col transponder spento, che è un po’ come se un’auto andasse in giro senza targa. Ne sappiamo le sigle: LK477,AG266, LG461. Prendiamo i primi due, ad esempio, Nessuno di loro è un aereo civile, anzi uno dei due è talmente veloce che i militari che lo seguono sui radar commenteranno – la frase è agli atti – che “c’è un punto in cui fa un salto da canguro che è impossibile crederci”. AG266, poi, era già nella zona, da ben prima: alle 20.50 si trovava su Papa Lima 00.50 (vale a dire l’isola di Ponza) e poi alle 21.04 era di nuovo su Ponza. E nel frattempo cosa ha fatto? Quell’aereo – che non sappiamo se sia francese, italiano, inglese o americano – è come minimo testimone oculare; ma i plottaggi – cioè i grafici che riportano le successive posizioni di questi due aerei – vennero sì trasmessi la sera stessa dalla base militare italiana di Licola a quella di Martina Franca, ma sparirono. Non saranno mai consegnati ai giudici.
Le perizie che si sono succedute negli anni hanno ristretto il cerchio a due ipotesi: missile o collisione in volo con altro aereo militare. Non si scappa. A dimostrazione del fatto che ci fu una battaglia aerea intorno al volo IH870, il Tribunale di Palermo (diciamolo, il nome del giudice che ha scritto questa sentenza fondamentale: Paola Proto Pisani) riannoda altri fili. Il coinvolgimento di un altro velivolo militare, ci dice, si capisce anche dal ritrovamento del serbatoio supplementare di un caccia; dal fatto che, quando si andò a recuperare il relitto del DC9, sul fondale marino c’erano già delle striature e dei crateri, lasciati da operazioni di recupero precedenti quelle ufficiali italiane. All’epoca, a 3500 metri di profondità, potevano operare solo sommergibili francesi o americani…e che senso aveva per loro operare in quel profondo buio, se non fossero stati coinvolti in qualche modo? “Quel serbatoio era della McDonnel-Douglas – spiega la Bonfietti – ma quando l’Italia chiese di che tipo di aereo fosse si sentì rispondere che non lo sapevano, avevano smarrito il file…ora, dico io, potevano rispondere che il serbatoio era di un aereo caduto nel 1985 oppure nel 1991, no? E invece hanno smarrito il file…”.
Che senso aveva per la nostra aeronautica mentire per decenni con la falsa tesi della bomba, far sparire tutti i dati possibilmente immaginabili, se non avessero visto qualcosa di inimmaginabile? Sappiamo che quella sera era in volo Gheddafi. L’ipotesi, insomma – molto più che tale – lo ricordiamo, è quella di un attacco aereo per abbatterlo, con successiva battaglia nei cieli proprio nei pressi del DC9, finitoci in mezzo per sbaglio. E, se prosegui Ambra 13, superi Palermo e ti ritrovi a Tripoli.
Continuiamo a guardare i tracciati radar: prendiamo un’altra traccia, la LG461. E’ un velivolo sconosciuto, che si inserisce nella traccia del DC9 poco dopo la sua partenza. E’ l’aereo su cui si trova il leader libico? Di sicuro se mi metto a volare nascosto nell’ombra radar di un altro aereo è per non farmi vedere, questo è certo. Che qualcosa non vada, quella sera, la nostra aeronautica lo sa bene, anzi benissimo. Tanto che una coppia di nostri F104, in volo molto vicino al DC9, lancia l’“emergenza generale” (i piloti erano Nutarelli e Naldini, delle Frecce Tricolori, che moriranno nell’incidente di Ramstein) alle 20.26 e alle 20.31: e si tratta di un tipo di emergenza non legata al loro velivolo, ma a qualcosa che avevano visto. Qualcosa che non sappiamo cosa sia, ma che possiamo intuire: perché hanno lanciato un’emergenza “friendly”, il che vuol dire che hanno visto un aereo militare nascosto sotto o di lato al DC9, sì, ma “amico”. IH870 non può accorgersene.
Nutarelli e Naldini non lo sanno ancora, ma quella è proprio la traccia LG461, l’aereo che si inserisce nella traiettoria del volo Itavia. Negli stessi momenti, alle 20.30, Ciampino vede la fuoriuscita di un velivolo militare dalla zona Delta. Questa “zona Delta” è un’area di esercitazioni militari posta al centro della Toscana e l’aereo misterioso è sul punto di inserirsi proprio nell’aerovia Ambra 14 – cioè quella seguita in quel momento dal DC9 – e proprio in prossimità del passaggio del volo Itavia. “A Poggio Renatico la nostra aeronautica smette di registrate il traffico aereo giusto mezz’ora prima dell’abbattimento del DC9 – ricorda la Bonfietti – a Grosseto, invece, non risulta cos’hanno registrato proprio dalle 8.20 alle 8.25, così non sapremo mai cos’hanno visto Nutarelli e Naldini…”.
Insomma, tutti vedono e quasi nessuno parla. E’ così? “Sì. Quando la Commissione Luzzatti, quella nominata dal Ministero dei Trasporti, chiuse la sua pre-relazione nel dicembre 1980, già parlava di bomba o missile. Il sospetto di un attacco aereo fu quindi immediato. Tuttavia il primo magistrato che si occupò dell’inchiesta, Santacroce, la tenne quattro anni senza ordinare una perizia, ma incriminando il titolare dell’Itavia, Davanzali, che sosteneva la tesi di un missile: il risultato è che nel 1985 la magistratura stava archiviando tutto”. E poi che accadde? “Nel 1985-86 noi iniziammo a far sentire la nostra voce e successivamente ad affiancare i nostri periti a quelli della magistratura, per capire meglio. L’inchiesta passò al giudice Bucarelli, che iniziò a interrogare i primi avieri nel 1986-87. Il 1987 è anche l’anno in cui muore il maresciallo Dettori, poco prima di testimoniare”.
Che possibilità ci sono, ora che la sentenza civile ha messo un punto fermo, di scoprire quello che manca, cioè di che nazionalità era l’aereo? “Oggi le possibilità sono solo politiche. Le battaglie in questo senso non possiamo farle noi che siamo i parenti delle vittime. E’ la politica che deve farsi dare delle risposte dai libici, dai francesi, da tutti quelli che possono darle”.
Ci sarebbe ancora molto da dire. La tesi del Mig libico, la riapertura dell’inchiesta su una delle morti sospette di militari italiani che ci sono state durante l’inchiesta. L’inchiesta dei giudici Monteleone e Amelio, tuttora in corso, sulle dichiarazioni di Cossiga (“sono stati i francesi”). E’ una lunga storia, quella di Ustica. Una storia che non è ancora finita, che arriva fino ai giorni nostri e che abbiamo appena iniziato a raccontarvi. CONTINUA…
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