di Fabio Sanvitale direzione@calasandra.it
20 aprile 2013
Che odore ha una strage? Ha l’odore del sangue. Inizia così “Scene di una strage”, il documentario, bellissimo, di Lucio Dell’Accio su questi 38 anni di buio passati dal giorno di Piazza della Loggia. Era il 28 maggio 1974, era una mattina di pioggia. Era l’anno del referendum sul divorzio. L’anno in cui finiva, in Grecia, il regime dei colonnelli. Erano gli anni in cui la domenica si andava a piedi per l’austerity, in cui la benzina costava fino a 260 lire al litro. Livia, Giulietta, Clementina, Alberto, Luigi, Euplo, Bartolo e Vittorio vennero frantumati da una bomba che esplode alle 10.12, nel mezzo di una manifestazione antifascista voluta dal Pci e dalla Cgil. Altre 94 persone restano ferite. Persone, non numeri: che impiegheranno anni prima di avere il coraggio di ripassare da quella Piazza e che ancora ne parlano commuovendosi. C’è anche un’altra categoria di persone, che si vede meno: i sopravvissuti. Quelli che avevano un parente, un fratello, un amico che è stato dilaniato e che, per anni, hanno portato dentro il senso di colpa di essere ancora vivi.
Piazza della Loggia è anche questo e tutto questo è nelle quasi tre ore del documentario. Non sembri troppo. E’ che ci vuole tempo a raccontare bene tante vite, insieme a quella di una inchiesta che è storia d’Italia. Perché che stesse per accadere qualcosa di grosso, a Brescia, in quei giorni, era nell’aria. C’era stato l’arresto di una cellula eversiva bresciana del Mar di Fumagalli; il neofascista Silvio Ferrari era saltato in aria, di notte, sulla sua Vespa, insieme a un bel pacco bomba; un attentato alla sede del Psi era stato mancato di un soffio, quelli alla Cisl ed alla Coop invece erano riusciti. C’erano state mazzate tra comunisti e neri. E lettere minacciose ai quotidiani locali, che preannunciavano una bomba, da parte di un gruppo “PNF-Silvio Ferrari” (il 21 maggio) e il giorno prima della strage. Bastava? Evidentemente no. Nonostante questo non ci sono controlli, quel giorno. Ci sono pochi carabinieri, rispetto a tutto l’allarme di questi episodi. Dettero un’occhiata ai cestini, così, alle 8.30. Il vicequestore Di Amare (ironia del nome) e il tenente Ferrari misero le forze dell’ordine sotto il loggiato della Piazza per poi spostarle nel cortile della prefettura. Poi, più nessuno bada ai cestini.
I ragazzi della sinistra degli anni Settanta pensavano di avere a che fare con il rischio di un colpo di mano da parte di settori dell’esercito, dei fascisti: ma era molto, molto di più. Dietro la strage –e non solo quella- stavano interessi atlantici, americani, piduisti, di parte dei servizi. Complessivamente, di tutti coloro i quali vedevano nella difesa dell’occidente cristiano una necessità da proteggere anche col sangue. E’ solo così che possiamo interpretare alcuni gesti avvenuti subito dopo l’esplosione. Ad esempio, chi mandò la Celere a sgombrare la piazza? Cosa aspettavano, lo scoppio per intervenire? E perché Di Amare non trovò di meglio, due ore dopo, che dare l’ordine di lavare la piazza con gli idranti? Anche un incompetente avrebbe saputo che così si cancellavano le prove, che sarebbe stato molto più difficile, dopo, trovare i colpevoli. Eppure, lo fece.
Non si può non vedere il nesso con Piazza Fontana, quando una delle bombe di quel giorno, quella inesplosa alla Banca Commerciale, fu fatta inopinatamente brillare, dal perito Teofisto Cerri, invece di essere analizzata. Lo stesso Cerri che sarà chiamato a Brescia per fare la perizia. Sono molti gli aspetti non chiariti. A cominciare dai frammenti della bomba e del cestino estratti dalle vittime in ospedale e mai arrivati dalla magistratura. Chi li ha presi? Non si sa, ancora. Proseguendo con quella serie di perquisizioni negli ambienti della sinistra bresciana, partite dopo la strage, quasi intimidatorie. D’altronde, in quelle ore convulse, è il Procuratore della Repubblica Salvatore Maiorano a dire ai suoi colleghi che non si può fare niente. Un alzare le mani che lascia l’impressione che ci fossero ordini superiori.
Due giorni dopo, i carabinieri, a colpo sicuro, a Pian di Rascino (Rieti) uccidono in uno scontro a fuoco che, stranamente termina con un colpo alla tempia, il neofascista Gianluca Esposti: pensano forse di aver trovato una cellula golpista. Certo, il milanese Esposti era legato a quell’area: ma è vero anche che il maresciallo pistolero Filippi, che lo uccise, era legato al Sid. Esposti era quello che diceva ai suoi amici: “vedrete che mi metteranno in mezzo a questa strage”. Secondo Vincenzo Vinciguerra, reo confesso della strage di Peteano (1972), Esposti aveva le ore contate: si temeva potesse parlare e la sua morte era già stata decretata. Insomma, Piazza della Loggia è molto più di un’esplosione, di un attentato: è strategia della tensione allo stato puro. Eppure, le prime indagini vanno su ipotesi ben più rassicuranti. È la pista Buzzi.
Ermanno Buzzi entra nell’inchiesta, secondo alcuni, quando i magistrati dell’inchiesta si avvicinano troppo alla verità. Pista avallata dal Generale Giovanbattista Palumbo, comandante della Divisione Pastrengo di Milano, che si scoprirà piduista e che stava seguendo la pista di Lotta Continua proprio per Peteano. Buzzi –un tipo dai modi affettati, che sui suoi biglietti da visita si presentava come il Conte di Blanchery, uno che stava in vestaglia e cravatta, col baffetto alla Clark Gable, secondo i rapporti della Questura “pederasta, ladro, confidente”; psicopatico e paranoico invece per i periti; uno che dopo dieci minuti che ci parlavi capivi che era un matto. Questo Buzzi avrebbe dichiarato di voler fare uno “scherzettino” ai rossi per la morte di Ferrari, quello della Vespa. Gli danno l’ergastolo in Assise, poi in Appello la pista si rivela quello che è: inconsistente. Risultato: si sono persi dieci anni dietro il fantasma sbagliato. E nel frattempo Buzzi viene strangolato in carcere da Concutelli e Tuti.
Ma perché una mezza calzetta come Buzzi viene strangolato da due capi come loro? Perché tanto onore? Solo perché si diceva fosse un confidente? O per dare invece l’impressione che fosse veramente legato alla strage? D’altronde, negli ambienti fascisti si sapeva benissimo che Ordine Nero, di cui Concutelli era il leader, era nient’altro che una creatura dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, una struttura creata proprio in quel maggio 1974 della strage, proprio quando sembrava che bastasse ormai una spintarella per portare l’Italia sull’orlo della dittatura. La strategia della tensione ha significato questo: fare attentati per poter offrire l’occasione al Governo di far digerire al Paese lo stato di emergenza. Maggiore sicurezza in cambio di minore libertà. Il tutto per tenere lontani i comunisti. Misure più rigide che però non entrarono in vigore, facendo mancare la parte finale di un piano golpista o comunque quantomeno di riduzione forte delle libertà individuali.
C’è tutto questo nel documentario di Lucio Dell’Accio. Ci sono i volti, le voci di chi era in Piazza della Loggia, quella mattina di pioggia, i ricordi, i perché, i grovigli di una strage senza verità. Verranno altre piste, altre indagini: ma nessun colpevole. C’è tutto questo e c’è la storia di una mattinata di maggio e di una nazione, che è la storia di tutti noi, che abbiamo il diritto di sapere. Oggi abbiamo tanti frammenti di verità che ricostruiscono un quadro storico sempre più necessario a un Paese che non ha ancora fatto pace col proprio passato, che non sa ancora bene chi è. Perché è evidente che non sarà nessun Governo ad aprire gli archivi e dirci la verità: confessando di aver saputo, di aver occultato, di aver creato le premesse e le coperture occulte degli attentati e delle bombe. Dunque, tocca ai protagonisti di allora, a quelli che raccontano quello che seppero e videro (come Vinciguerra), ai giornalisti ed anche ai documentaristi, che nella forza delle immagini mettono la forza di quelle vite infrante. Ci sono voluti sei anni a Dell’Accio per mettere insieme i fondi necessari, girando ogni volta un pezzo, man mano: una fatica immane. Ma questo è un documentario che dovrebbe andare in prima serata. E che dovrebbero vedere, tutti, nelle scuole.