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tratto da:
http://www.railibro.rai.it/articoli.asp?id=820
A guardarlo con occhi distaccati potrebbe sembrare un tranquillo, banale quadretto che ritrae dei lavori in corso in un anonimo cantiere. Sono le luci delle fotoelettriche e le migliaia di spettatori a renderla una scena surreale e grottesca. Se una telecamera potesse zoomare da questo ‘totale’ fin dentro l’animo delle persone, svelerebbe, dietro l’apparente serenità della scena, il tumulto d’angoscia di chi sa di assistere a una corsa mortale contro il tempo. Un’angoscia che cresce di ora in ora, di minuto in minuto, in misura inversamente proporzionale alle possibilità che ha Alfredino di salvarsi”.
La memoria. Collettiva, visiva, affettiva, familiare, storica. Con i suoi ricordi indelebili, che affiorano senza sforzo a distanza di anni “come se fosse successo ieri”, ci capita spesso di esclamare. Ma la memoria non è soltanto ricordare. È sfogliare il ricordo, arricchirlo, rileggerlo. Impadronirsi, più che del ricordo, della sua storia. Magari aiutati da qualcuno in grado di farlo. Qualcuno abile nel narrare la storia di un ricordo, come il giornalista Massimo Gamba, con il suo prezioso libro Vermicino. L’Italia nel pozzo.
Alfredino, pozzo, Vermicino. Chi non associa queste parole a un agghiacciante fatto di cronaca italiana avvenuto negli anni Ottanta, è giustificato solo in virtù della sua età. Per gli altri, la memoria è terribilmente nitida.
Alfredo Rampi ha sei anni nel giugno del 1981 quando sprofonda nell’abisso di un pozzo malamente custodito nella campagna di Vermicino, in provincia di Roma. Nessun testimone della caduta, solo due genitori preoccupati per l’assenza del figlio. L’allarme scatta immediatamente, e le ricerche conducono a un pozzo artesiano, dove il bimbo è effettivamente intrappolato dalle 19 circa, e ora si sta lamentando, chiede aiuto in modo straziante, invoca la mamma, seppur dimostrando fin da subito un coraggio eccezionale. Bello, vivace, simpatico, intelligente, forse non capisce subito la gravità e la fatalità della sua caduta, ma basteranno soltanto alcune ore alla sua lucida e resistente intelligenza per fargli dire alla madre – intenta a rassicurarlo al bordo del pozzo e a spiegargli che è questione di minuti – “Nun me sta’ a racconta’ bucie, che nun te credo più”. Ma Alfredino è innanzitutto un bambino speciale. Sì, perché è cardiopatico e ha un solo rene (lo si scoprirà durante l’autopsia, nemmeno i genitori ne erano a conoscenza), ma soprattutto è un bimbo di sei anni finito sottoterra, in un cunicolo buio, stretto e fangoso, profondo 80 metri. A un normale bambino della sua età basterebbe ritrovarsi nel buio della propria camera da letto per avere paura.
È mercoledì 10 giugno, nessuno immagina che cosa accadrà nelle prossime sessanta ore intorno al pozzo. Succederà di tutto, tranne la salvezza di Alfredino. È indelicato raccontarlo così, seccamente e bruscamente. Ma è persino un’informazione pleonastica visto che tutti gli “italiani dell’epoca” lo ricordano, quel tragico epilogo, dopo aver pianto sentendo i lamenti di Alfredino e dopo aver triplicato il pianto all’interruzione di quei lamenti. Soffocati per sempre.
Quei lamenti, durante il montaggio del primo servizio arrivato in Rai per il Tg, bloccarono un intero corridoio di via Teulada: erano tutti intorno alla saletta di montaggio ipnotizzati da quel gemito coraggioso e disperato.
A Vermicino si tenterà di salvare il bambino senza una regia organizzativa ma con l’uso disperato di tutto: mezzi e persone. Una rumorosa trivella che scava un pozzo parallelo (“dando una terrificante colonna sonora all’incubo di Alfredino”), una tavoletta-altalena che però si incastra e finisce per bloccare fatalmente il pozzo, e un folto stuolo di vigili del fuoco, speleologi, nani, uomini mingherlini (oltre agli esibizionisti, schierati in prima linea ma di cui tutti noi vorremmo dimenticarci). “C’era un’atmosfera felliniana”, ricorda un giornalista a proposito di quella “specie di corte dei miracoli composta da nani, acrobati, contorsionisti”. Ciononostante, esperti e volontari diventano presto i supereroi di Alfredino. Persone indispensabili.
Come il vigile Nando Broglio, che subito si affeziona al bambino, gli parla per una notte intera, lo sostiene senza sosta, gli diventa amico, incoraggiandolo in un commovente dialogo, profondo sessanta metri:
Quando mi sono alzato dall’orlo del pozzo per riposarmi e ho ceduto per un attimo il posto al mio collega Mario, Alfredo mi ha detto: “Non voglio un altro vigile”.
Io gli ho risposto: “Ma questo è un mio amico che adesso viene a prenderti”.
E Alfredo: “Voglio soltanto te”.
(“Il Messaggero”, 13 giugno 1981)
O come il volontario sardo Angelo Licheri, che col suo corpo minuto sprofonda per oltre 40 minuti in quel buio claustrofobico, raggiunge Alfredo, lo tocca, tenta di imbracarlo, lo perde, ritenta, gli scivola via, allora lo tira forte e gli rompe un polso perché-altro-non-si-poteva-fare se si voleva tirarlo su a tutti i costi, e infine gli manda un bacio, quasi volesse scusarsi per l’impossibilità tecnica della manovra. Tra parentesi: ad Angelo Licheri saranno offerte 27 medaglie d’oro e tanti, tantissimi soldi. A tutto questo, Angelo risponderà “Chi può accettare un premio dopo che ha fallito? Io non ce l’ho fatta”. Chapeau, Angelo. L’uomo che andò “più vicino di qualunque altro alla salvezza del bimbo”.
Eroi, che riemergono in superficie “a mani vuote”, feriti, sanguinanti, esausti, col sangue al cervello e le vene palpitanti, ma applauditi dalla folla commossa che si è raccolta intorno al pozzo e ai genitori disperatamente dignitosi di Alfredino: Franca e Ferdinando Rampi, non semplici genitori ma creature emblematiche di un’instancabile e pervicace tenacia. E non c’è immagine più toccante dell’affetto unito alla lucidità, dello sforzo di una madre nel sostenere psicologicamente (almeno psicologicamente) il figlio intrappolato in una tragedia come questa: un soccorso più efficace e più intenso, Franca Rampi non avrebbe potuto darlo al suo Alfredino. È stata perfetta, anche mangiando quel ghiacciolo.
Le notizie le inseguivano (le inseguivamo) nel pianto di Alfredo Rampi sempre più disperato, sempre più fioco; nella voce arrochita e generosa del suo amico Nando Broglio; nel grido di autentico terrore di Angelo, il secondo soccorritore, mentre lo recuperavano nel buio del pozzo di morte; nella voce, romanesca e indomita, della madre del bambino.
(Giovanni Giudici, “L’Unità”, 14 giugno 1981).
Non è semplice individuare e accostare aggettivi al nome di questa tragedia, che ha coinvolto – nel bene e nel male – una nazione intera con le sue debolezze, le sue capacità, la sua celebre “arte di arrangiarsi” anche dove “arrangiarsi” non si è rivelato affatto lo strumento appropriato. Ecco perché all’inizio dicevamo che si ha sempre bisogno di un aiuto per ricostruire un ricordo: e infatti Gamba li trova, gli aggettivi calzanti. Di quel venerdì sera che inaugura l’ultima disperata lotta alla salvezza di Alfredino, l’autore racconta che stava iniziando “la notte più vorticosa, convulsa, appassionante, commovente, folle, eroica, tormentata, dolente, disperata che l’Italia ricordi”. E ripete più volte il concetto di “altalena delle emozioni”, quasi sentisse il desiderio di sottolineare ai lettori che erano le incessanti ma lente manovre sotterranee, assieme alle (in)decisioni in superficie, a dettare i sentimenti nell’animo di chi seguiva la vicenda, in un forsennato alternarsi di speranza e di sconforto collettivi.
Tutta l’Italia si stringe intorno al pozzo, ad Alfredo, ai genitori, ai volontari. Alfredino è il figlio di tutti. Anche del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che arriva senza preavviso a Vermicino, sosta in piedi davanti al pozzo e nei suoi dintorni per quindici ore, e indossa le cuffie collegate a un microfono calato nel cunicolo per sentire la voce del bambino. “Intanto la voce”, avrà pensato. “Poi lo abbraccerò di persona”, avrà continuato a pensare, nel nome di tutti gli italiani che hanno sperato e atteso la sua salvezza.
Ma intrappolato ormai da quasi sessanta ore, Alfredino parla di meno, rantola, ansima, sta scivolando sempre più in profondità, dove la temperatura è molto bassa, il buio aumenta e i soccorsi faticano angosciosamente. A tentare di portare alla luce Alfredino, in queste ultime rocambolesche e scomposte ore, si presenta dall’Abruzzo un giovane speleologo dilettante, Donato Caruso: 35 chili di coraggio e di ultima speranza. L’uomo adatto, agile, l’uomo che il destino ha voluto si presentasse troppo tardi. Si cala, striscia, si spinge fino al corpo rannicchiato di Alfredo, lo vede ricoperto di fango, scruta la sua posizione, ma non riesce a sentire il respiro. Non lo sente affatto. Perché Alfredo ha smesso di respirare.
L’inferno sotterraneo è finito. La lotta del bambino è terminata. A comunicarlo è anche il cardiologo di Alfredo, che non ha mai smesso di monitorare il battito del piccolo. L’Italia ammutolisce. Non solo i ventimila italiani nei pressi del pozzo della morte, ma anche quelli incollati agli schermi della televisione. Perché sì, si è visto tutto su due reti unificate della Rai (mentre la terza rete trasmetteva alcuni innesti), ed è stata la diretta televisiva più lunga della storia italiana. Con punte fino a trenta milioni di spettatori, tutti sconvolti dalle immagini, dalle voci e dai silenzi provenienti da Vermicino.
La sorte di Alfredino ha oscurato la crisi di governo e l’incarico a Spadolini di formare un nuovo esecutivo. Ma anche il rapimento di Roberto Peci, fratello del primo pentito delle Brigate Rosse. Solo sullo sfondo troviamo il groviglio di notizie legate allo scandalo della P2.
È successo questo: edizioni sforate dei telegiornali, edizioni ordinarie seguite senza sosta da edizioni straordinarie. Insomma, un evento mediatico senza precedenti, un accavallamento di informazioni che raggiunge il suo acme nella lunga diretta con un’unica telecamera, un interminabile piano-sequenza, partita venerdì 12 giugno e durata diciotto ore.
Non fu “una televisione del dolore”, come molti dissero. Fu una diretta indispensabile, nata così, naturale, automatica, priva di copioni e di inviati melliflui. Senza quella diretta e senza l’informazione giornalistica, molti volontari da tutta l’Italia non si sarebbero presentati e calati nel “cantiere della morte” fino all’ultimo momento; senza quella diretta, il Paese non avrebbe potuto esprimere una sconfinata solidarietà che, ne siamo sicuri, i genitori di Alfredino hanno percepito come “speranza aggiuntiva”; senza quella diretta sana, priva di filtri, di trucco-e-parrucco e di salotti dell’informazione, non avremmo potuto capire che c’è stata una “impotenza complessiva di un sistema”, che si è tentato tutto, talvolta male ma tutto, per amore di Alfredino. Senza quella diretta, quasi certamente non saremmo qui a ricordare. E poi, la televisione del dolore sarà un’altra. Decisamente un’altra.
La diretta di Vermicino è nata dalla convinzione che a tutta l’Italia stesse per essere recapitato un regalo, il lieto fine, e che quelle riprese rappresentassero una favola, e non un incubo. L’anima di quella diretta era insomma un’anima buona. E come ha raccontato di recente Gamba, “la ‘colpa’ della Rai non fu tanto quella di fare informazione, di mandare la diretta, quanto di non essersi resa conto della portata – sul pubblico – che potevano avere quelle diciotto ore, in cui a un certo punto i giornalisti sono persino scomparsi, perché non sapevano più davvero che cosa raccontare. E la cronaca, la diretta, l’evento televisivo li facevano i soccorritori stessi col megafono, parlando tra di loro. La facevano i protagonisti. In quel momento, i giornalisti Rai erano esattamente come noi: erano degli spettatori”.
Il (non)senso di quella tragedia, la sensazione di sconfitta e di strazio totali, lo stordimento ricettivo di un’Italia interamente in lutto, che spegne la televisione e non trova gli strumenti psicologici per accettare la morte di Alfredino, fecero sì che tutta l’Italia dicesse a se stessa: non è possibile che sia morto, anzi: non è possibile che sia morto così. Come dire, un destino assurdo, cui si stenta a credere nonostante la drammatica, evidente verità finale, espressa da soccorritori, medici, pompieri e speleologi alle prese con un terrificante e intubato silenzio.
Fu “una sterminata depressione di massa”, la patologia degli italiani che hanno seguito con disperazione le ultime ore del piccolo Alfredo. “Fu veramente uno psicodramma fortissimo che lasciò tutti tramortiti”, racconta Gamba.
Così, dopo la tragedia, si doveva guardare avanti. È una frase che si dice sempre, talvolta per comodità, talaltra per necessità. Altre volte ancora, per amore. La mamma di Alfredino si impegna immediatamente nella creazione del “Centro Alfredo Rampi” per la Protezione civile, un’associazione finalizzata all’educazione al rischio ambientale dei bambini e degli adolescenti, e alla formazione degli adulti: la missione di Franca nasce dal forte desiderio che non accadano più tragedie come quella capitata al figlio, ed è riuscita a pensare e a immaginare questo progetto quando il corpo del suo bambino era ancora là sotto (verrà recuperato l’11 luglio, quasi un mese dopo).
Se per qualcuno la tragedia in diretta televisiva fu espressione di una macabra “tivù del dolore”, si può replicare che la televisione ha dei problemi quando si dimentica degli uomini (quelli autentici), quando cede all’oblio, quando non nutre di memoria storica i suoi spettatori e si piega alla superficialità visiva, perché la diretta di Vermicino sarebbe dovuta continuare, zoomando delicatamente sull’esistenza dei genitori di Alfredino, sul modo nobilmente dignitoso con cui hanno continuato a vivere senza di lui, eppure nel suo nome. Storie e lezioni di vita da conoscere e da apprezzare.
Vermicino. L’Italia nel pozzo è la diretta narrativa di quella tragedia, è la ricostruzione di un ricordo che trae alimento da un aspetto documentario che l’autore ama sottolineare con chiarezza: “Della tragedia di Vermicino esiste un ricordo diffusissimo, forte, ma ancora tutto unicamente emotivo. Non c’è ancora memoria storica”.
Ora c’è un libro, necessario per ricostruirla.
Massimo Gamba
Vermicino. L’Italia nel pozzo
“Una tragedia in diretta”
Sperling & Kupfer, 2007
pp. 278, euro 14,00
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