Tratto da: http://www.trilobiti.it/impronte/chiave_cogne.html
Come si occulta una semplice verità, quando il delitto diventa mediatico. Valentina Magrin, co-autrice – insieme a Fabiana Muceli e al curatore Paolo Cucchiarelli – del libro La chiave di Cogne, ci porta sulle tracce dell’arma del delitto. È il mattino del 30 gennaio 2002 nella frazione di Montroz, a Cogne, in Val d’Aosta e il piccolo Samuele Lorenzi viene assassinato. Ancora oggi ci si domanda: come e perché.
Valentina Magrin, quando e come è nata l’idea di questo libro? E come si è formato “il gruppo di lavoro”?
L’idea di scrivere questo libro è nata nel gennaio 2007. Io e Fabiana, nei mesi precedenti, avevamo frequentato un master in Giornalismo Investigativo presso l’Università di Urbino e il delitto di Cogne era stato l’oggetto della nostra tesi di fine corso. Così, visti i buoni risultati ottenuti, e grazie al supporto del giornalista Paolo Cucchiarelli che ci ha seguito in tutte le fasi del lavoro, abbiamo deciso di riprendere in mano tutta la vicenda e di analizzarla nei minimi dettagli. Abbiamo raccolto tutto il materiale – carte processuali, perizie, libri, interviste rilasciate da Annamaria Franzoni [la madre di Samuele Lorenzi] – ed abbiamo creato una sorta di archivio tematico: abbiamo suddiviso l’arco temporale, che va dalla sera precedente ai momenti successivi all’omicidio di Samuele Lorenzi, in svariate cartelle, ognuna delle quali conteneva tutti i riferimenti a un determinato evento (ad es. il primo malore di Annamaria, il secondo, il risveglio di Davide, il risveglio di Samuele, l’uscita di casa di Annamaria, i primi soccorsi etc.). Per alcuni mesi abbiamo studiato attentamente queste cartelle, evidenziando tutte le incongruenze presenti all’interno di ognuna di esse. Abbiamo quindi iniziato la vera e propria stesura del testo, nel quale abbiamo appunto ricostruito la vicenda mettendo in evidenza tutto ciò che non “quadrava”. In questa fase del lavoro ci siamo rese conto del particolare ruolo svolto dal mazzo di chiavi della Franzoni, che era tra l’altro l’oggetto col quale la donna, a suo dire, stava interagendo al momento del risveglio di Samuele. Abbiamo così iniziato a ipotizzare che dietro a questo oggetto si nascondesse la tanto cercata “arma del delitto” e, una volta avuta in mano l’autopsia fatta sul corpo del bambino, ce ne siamo convinte.
Il genere televisivo del “processo in tv”, si dice nel libro, ha sempre più spazio. Ma quali sono le caratteristiche di un processo tv di successo? Perché alcune vicende (Cogne, Perugia, Garlasco, Erba) diventano fenomeni mediatici e altre, sebbene anche “più gravi”, invece passano inosservate? Molti infanticidi non passano alla storia, non vengono vissuti in modo così morboso ed eccessivo. In particolare, quanto mediatica è stata questa “telenovela-verità” che ha incollato agli schermi milioni di italiani e soprattutto perché?
La vicenda di Cogne ha avuto, fin dai primi giorni successivi alla tragedia, un grosso riscontro mediatico. Non c’è stato un quotidiano che non l’abbia messa in prima pagina, non c’è stata una rete televisiva che non le abbia riservato un qualche speciale. Probabilmente però, se si fosse individuato fin da subito un colpevole certo, il can can mediatico si sarebbe esaurito in poche settimane, come nei molti casi di infanticidio ai quali ormai, purtroppo, ci siamo abituati. Ma il mantenersi alto dell’attenzione su questo caso è dovuto anche, e soprattutto, al fatto che Annamaria Franzoni, e con lei la sua famiglia, proprio quando i riflettori su di loro si stavano spegnendo per riaccendersi su altri eventi, hanno deciso di andare a ribadire la loro estraneità ai fatti proprio nei salotti televisivi. A questo punto l’umana curiosità ha preso il sopravvento: l’opinione pubblica aveva a sua disposizione, dall’altra parte dello schermo, una presunta assassina… guardarla negli occhi, sentire le sue parole, provare a cogliere le sue emozioni… difficile, nell’epoca del Grande Fratello, restare indifferenti a una sorta di reality così avvincente!
Parliamo del malore di quella mattina del 30 gennaio di Annamaria Franzoni. Erano le 5 e 39…
Annamaria era stata male anche la sera precedente. Quella mattina, all’alba, si sveglia con gli stessi sintomi: formicolii a gambe e braccia, nausea, capogiri… ma soprattutto con la paura di non farcela a riprendersi. È per questo che chiede al marito di chiamare subito il 118, sebbene lui cerchi di minimizzare la situazione. I coniugi Lorenzi diranno, in seguito, che la causa del malore di Annamaria era una congestione o forse un principio di influenza, ma questa ipotesi è smentita dai fatti: innanzitutto Stefania Neri, la guardia medica arrivata in soccorso della donna, ha sempre sostenuto di essersi imbattuta in un disturbo legato alla sfera psichica, anche se negato dalla paziente stessa; Annamaria inoltre, come abbiamo evidenziato nel primo capitolo del nostro libro, ha avuto molto frequentemente dei malori simili a quello della mattina del 30 gennaio, e quando c’è stata la possibilità di un controllo medico (ad esempio quando la donna era in carcere) si è sempre ipotizzato un disturbo legato all’ansia.
Annamaria Franzoni parlò di formicolio agli arti: è esclusa la congestione. Sono forse sintomi di una crisi psicotica? Si parla di “parestesie transitorie mani e piedi” e si parla anche di un farmaco neurotrofico prescritto dalla dottoressa.
Potrebbe certamente trattarsi di isteria, ma questa diagnosi spetta a un medico specialista. Di certo Annamaria Franzoni soffre di un qualche disturbo psichico che, quanto meno, ha le caratteristiche di quello che si può generalmente definire “disturbo d’ansia”.
Che fine ha fatto Stefania Neri, la guardia medica al primo incarico a Cogne, che arrivò nella villetta di Montroz accompagnata dal fidanzato medico?
Da quanto mi risulta non è più a Cogne. Potrebbe essere tornata in Calabria, sua terra d’origine. Ha comunque dato la sua versione dei fatti sia in sede processuale che in sede di perizia psichiatrica.
Si parla di “azione contenitiva” da parte del marito: che cosa significa e più in generale come possiamo descrivere la figura di Stefano Lorenzi?
Stefano Lorenzi è il supporto fisico e morale di Annamaria Franzoni. Quando lei sta male, lui – da bravo e premuroso marito – la accudisce e la consola. E lei, il più delle volte, si tranquillizza tra le sue braccia. Stefano ha quindi la capacità di “arginare” le crisi di panico di sua moglie, è un uomo forte, tutto d’un pezzo, che dà sicurezza. Troviamo conferma a ciò nei malori della Franzoni del 29 e del 30 gennaio 2002, ma anche in quelli successivi nella caserma dei carabinieri e nell’intercettazione ambientale fatta in auto nel febbraio 2002. La mattina in cui è morto Samuele, Annamaria era particolarmente provata dal suo stato psichico e il fatto che Stefano fosse uscito per andare a lavorare, facendole così mancare il suo più grande supporto, l’ha resa più vulnerabile e non le ha impedito, forse, di commettere il più atroce dei delitti.
Mi chiedo se Stefano non si sia sentito (o non l’abbiano fatto sentire) tremendamente in colpa per questa sua “assenza”, e se questo sia da collegarsi all’atteggiamento da lui tenuto in seguito all’uccisione di suo figlio. “Non sentirti in colpa”: così si sarebbe rivolto alla moglie, almeno secondo la testimonianza di uno dei primi soccorritori di Samuele. E questa frase sembra ripeterla negli anni, ogni volta che stanno seduti nel salotto di Bruno Vespa, ogni volta che i giudici o l’opinione pubblica puntano il dito verso sua moglie… quasi come se lui si addossasse la responsabilità di averla lasciata sola.
Restano i dubbi su quello che potrebbe aver visto il fratellino Davide, su dove il bambino si trovasse nei minuti chiave di quella mattina…
Annamaria, inizialmente, sostiene che Davide quella mattina maledetta era fuori a giocare con la bicicletta, in attesa che la mamma lo accompagnasse a scuola. Solo col tempo, quando capirà che il suo unico alibi è proprio il primogenito, la Franzoni cambierà versione, dicendo che Davide è sempre stato in casa con lei, e avrebbe addirittura salutato Samuele. Questa è forse la più grossolana delle contraddizioni in cui è caduta Annamaria Franzoni, quella in cui è più evidente il suo tentativo di “aggiustare la mira” per garantire la sua innocenza. Io credo assolutamente alla prima versione dei fatti: Davide quella mattina era in giardino, non ha visto né sentito niente.
È ambigua anche la figura di Ada Satragni, cha arriva sul posto insieme al suocero, ma arriva dopo la vicina Daniela Ferrod. Le prime dichiarazioni della dottoressa Satragni parlano di “aneurisma forte”…
Non è strano il fatto che la dottoressa Satragni arrivi dopo la Ferrod: abitava più lontano, la Ferrod era invece proprio la dirimpettaia.
È difficile esprimere un giudizio su Ada Satragni. Da un lato non voglio mettere in dubbio la sua professionalità, dall’altro la descrizione della scena del delitto e le testimonianze dei medici dell’elisoccorso arrivati poco dopo di lei non lasciano dubbi: Samuele è morto di morte violenta. L’unica cosa che posso ipotizzare è che il fatto che la Satragni conoscesse la famiglia Lorenzi (più o meno superficialmente, ci sono opinioni diverse a proposito) le abbia “inconsciamente” impedito di avere un giudizio fin da subito freddo e razionale.
È interessante anche la cornice: possiamo tracciare un ritratto dei coniugi Lorenzi a Cogne e della vita che lì conducevano?
Annamaria e Stefano Lorenzi si trasferiscono a Cogne, per la precisione nella frazione di Montroz, nel 1995. Entrambi conoscono già quelle zone: è proprio lì che si sono innamorati più di 10 anni prima, un’estate in cui Stefano era in vacanza con la famiglia e Annamaria faceva la stagione come cameriera. Poi, una volta sposati, decidono di lasciare l’Emilia Romagna e di costruire il loro nido d’amore proprio tra quelle montagne. La casa sarà pronta nel 1997 (prima stanno in affitto in un appartamento del parroco del paese). Davide ha 3 anni, Samuele arriverà solo un anno più tardi. La famiglia riesce ad inserirsi abbastanza bene in quella seppur chiusa comunità di montagna. I “forestieri” – come vengono chiamati – sono considerati delle brave persone. Stefano coniuga il suo lavoro come elettricista con qualche incarico politico, Annamaria invece fa la mamma a tempo pieno. Pare che inizialmente ci siano stati dei piccoli screzi con i vicini, la famiglia Guichardaz, risoltisi poi abbastanza serenamente. Insomma, apparentemente andava tutto a gonfie vele…
In presenza di Daniela Ferrod, di fronte al calvario di Samuele che ancora respira con affanno ma è coperto di sangue, Annamaria è sotto-shock, ferma, inerme, in preda al panico. Non tocca il figlio?
Annamaria guarda il suo bambino che sta morendo e resta immobile, inerme, con le mani lungo i fianchi. È fredda? È terrorizzata? Difficile dire l’una o l’altra, difficile esprimere un giudizio. Di fronte a un dramma come la vista del proprio figlio in fin di vita, qualunque e chiunque ne sia la causa, non è possibile stabilire quale sia il “giusto” comportamento. Sono altri i momenti in cui si può leggere tra le righe del comportamento di Annamaria la verità dei fatti di quella mattina.
Il criminologo Francesco Bruno è stato il primo a parlare di “dramma familiare”?
Nel delirio mediatico dei giorni successivi alla tragedia di Samuele Lorenzi, nella disperata corsa alla notizia, esperti più o meno qualificati hanno espresso il loro giudizio sulla vicenda: c’era chi ipotizzava la pista del serial killer, chi quella dei riti satanici, chi quella dell’animale feroce… Ma a ben vedere già lo stesso 30 gennaio 2002, il giorno del delitto, il criminologo Francesco Bruno parla all’Ansa di un probabile “dramma familiare”.
Dove sono le “prove regine”? Ce ne sono? Il processo è stato e continua a essere solo indiziario. Nel “massacro mediatico”, come si dice nel libro, per molti colpevolisti ci sarebbe la frase detta in un fuori onda a Studio Aperto dalla Franzoni all’operatore e al giornalista: “Ho pianto troppo?”, chiederà.
Nel delitto di Cogne mancano le cosiddette “prove regine”: non c’è una confessione, non ci sono tracce che conducano a un colpevole certo (se si escludono quelle lasciate da Annamaria, che però ha la giustificazione di essere la proprietaria della casa dove si è svolto il dramma), non c’è l’arma del delitto e non c’è, infine, un movente plausibile che renda comprensibile la morte di un bambino di appena 3 anni. È soprattutto di questi “buchi neri” della vicenda che si alimenta il processo, mediatico e non. Con tutte queste variabili si aprono molteplici possibilità alla ricostruzione dei fatti, per la gioia di tutti gli opinionisti dell’ultima ora. Facile immaginare, in questo scenario, cosa può provocare una frase come quella detta da Annamaria Franzoni in un fuori onda del tg di Studio Aperto: “Ho pianto troppo?”. Una frase che lascia intendere ancora una volta una certa freddezza, un certo distacco da parte della donna. Ma queste parole in sé non sono così significative, potrebbero anche essere state dettate dall’imbarazzo di una persona all’epoca poco abituata a stare davanti a una telecamera. L’errore che spesso si fa, secondo me, è quello di soffermarsi troppo sui particolari più suggestivi, più eclatanti, ma che di per sé non dimostrano niente, altrimenti non saremmo ancora qui a parlare di questa vicenda. Se c’è una possibilità di arrivare alla verità dei fatti, dopo più di sei anni, è andando alla ricerca di qualche elemento finora trascurato, oscurato dal bagliore di tanti fatti superficiali.
Perché questo libro? Contraddizioni, intercettazioni ambientali, depistaggi, ipotesi, commenti, interviste, ma voi avete pensato bene all’arma del delitto, che secondo il professor Viglino “non si può stabilire con certezza di quale tipo sia”. Ma spunta quel mazzo di chiavi infilato nella toppa della porta di ingresso: raccontiamo perché potrebbe essere stato un mazzo di chiavi l’arma del delitto e parliamo dell’articolo di Rita Pedditzi che illustrava proprio questa ipotesi…
Innanzitutto vorrei precisare che, all’inizio del nostro lavoro, non era assolutamente nostra intenzione avanzare una nuova ipotesi sull’arma del delitto. Volevamo semplicemente ricostruire i fatti mettendo in evidenza le numerose contraddizioni presenti nella versione di Annamaria Franzoni, alcune delle quali ancora non individuate o comunque sottovalutate. L’attenzione verso il mazzo di chiavi è sorta strada facendo quando, analizzando tutte le dichiarazioni della Franzoni, abbiamo trovato uno strano e continuo rimando a questo oggetto: la porta era chiusa o era aperta, le chiavi erano o no nella toppa, l’attenzione rivolta alle chiavi nei momenti dei soccorsi, il desiderio di Annamaria di consegnarle alla vicina Daniela Ferrod. Ci siamo chieste il perché di questi strani comportamenti della donna, tutti collegati a quel mazzo di chiavi. Inizialmente i nostri dubbi sono rimasti senza risposta. Poi, ricostruendo nel dettaglio la mattina dell’omicidio, ci siamo accorte che Annamaria più volte dice (e questa volta senza contraddirsi) di aver sentito Samuele svegliarsi e piangere disperato proprio nel momento in cui lei stava girando le chiavi nella serratura. Posto che, con ogni probabilità, sono proprio le urla del bambino ad aver fatto saltare i già instabili nervi della madre, è sicuramente in quel frangente che si è consumato l’omicidio. Quindi Annamaria aveva in mano, o quanto meno a portata di mano, proprio il mazzo di chiavi. Di più, lei aveva tutti i motivi per scendere al reparto notte (dove c’era Samuele) tenendo in mano quell’oggetto, visto che poteva uscire di casa attraverso il garage o la porta-finestra della camera da letto, e avrebbe quindi potuto tenere con sé le chiavi per poi utilizzarle per rientrare. Di contro, non aveva nessun motivo per scendere da Samuele tenendo in mano un mestolo (l’arma del delitto ipotizzata dall’accusa). E’ stata questa deduzione logica che ci ha portato per la prima volta a ipotizzare che l’arma con cui è stato colpito il bambino fosse il mazzo di chiavi. Abbiamo quindi deciso che valeva la pena portare avanti la nostra ipotesi, e siamo riuscite a consultare l’autopsia fatta sul corpo di Samuele. Molte delle ferite erano facilmente collegabili a quel tipo di “arma impropria”, altre in cui la congruenza era meno evidente erano comunque riconducibili ad essa. Stessa compatibilità per quanto riguarda le tracce ematiche presenti nella scena del delitto. A questo punto abbiamo creduto opportuno rendere pubblica la nostra ipotesi, senza la presunzione di aver risolto il caso, ma forti del fatto di essere giunte a dei riscontri logico-deduttivi e scientifici. Un ultimo episodio che rimanda, ancora una volta, al mazzo di chiavi, è la notizia del 2005 del ritrovamento da parte della difesa di Annamaria Franzoni di un doppione delle chiavi in un incavo di un muretto nei pressi della villetta di Montroz. Racconta questo episodio (e ce ne ha confermato la veridicità) la giornalista Rita Pedditzi, in un articolo scritto per la rivista News. Chi ha messo quelle chiavi lì? Quando? Perché? Possibile che nessuno, neanche le forze dell’ordine che hanno perlustrato la zona, l’abbiano notato prima? A nostro avviso, potrebbe trattarsi di un tentativo di depistaggio, attuato da chi sapeva che quel tipo di oggetto rappresentava l’arma del delitto, e ha quindi pensato di farne trovare un doppione vicino al luogo del delitto, ma lontano dall’unica persona finora accusata di averlo commesso.
Valentina Magrin e Fabiana Muceli
La chiave di Cogne
(a cura di Paolo Cucchiarelli)
Cavallo di Ferro, 2008
pp. 206; euro 14,00